Loading…

PUBBLICAZIONI EDIDA

Passione per la scrittura
ESPLORA
Crucigramma con espressioni omofobe

D. e G.

:: di Umberto Gorini ::

Chiuso. Finito. Concluso!

Questa endíatri risuonava nella testa di Dari mentre camminava a passi lenti. La sua mente era tutta un turbinio di pensieri e in completo tumulto.
Avrebbe voluto correre, correre, arrivare di slancio e una volta arrivato, guardarlo negli occhi e gridargli tutto d’un fiato quello che covava in sé da giorni: il loro rapporto era chiuso! Finito! Concluso!

Ma il suo lento e strascicato camminare sembrava fare da contrappasso ai suoi pensieri.
Gli venne in mente la loro prima uscita, per così dire, pubblica. Quando avevano deciso di fare il cosiddetto coming out. E poi tutte queste parole inglesi…
Da tempo ne parlavano, discutevano e poi rimandavano sempre la decisione di uscire allo scoperto. Loro due soli contro tutto il paese!
In verità non è che fossero proprio gli unici. Se ne accorgevano da qualche occhiata furtiva, da qualche stretta di mano alcuni secondi più lunga, da uno sfiorarsi che poteva sembrare casuale. Giusy gli aveva parlato dell’istruttore della palestra. Un tipo ipertrofico, tutto muscoli e testa rasata che stava sempre vicino a giovani esili, ma desiderosi di indossare magliette attillate, a cui lanciava lunghe e interessate occhiate e con la scusa di mostrare la postura adatta si soffermava spesso su quelle giovani carni da rassodare.

D’altra parte Dari aveva letto da qualche parte che si stimasse – stime affette da pericolose imprecisioni – che uno su cento fosse omosessuale. Il paese contava circa diecimila abitanti e dunque molto probabilmente loro due erano in buona compagnia.
Una compagnia evidentemente e abilmente dissimulata, specialmente dai “benpensanti”, persone di “peso” nella comunità, che mantenevano una facciata di rispettabilità, con mogli e figli. Eppure qualche volta la facciata mostrava piccole crepe, come quella volta che avevano sorpreso il direttore della banca in un locale, particolare, in una grande città lontana a sufficienza dal loro paesotto e dove G. e D. andavano a volte per avere un po’ di tranquillità e svago. Stava uscendo dal suddetto locale e alla loro vista subito aveva voltato l’angolo ed era sparito in un battibaleno!

Giusy alla fine l’aveva convinto, o meglio spinto e insistito così tanto che Dari aveva infine acconsentito. Lui era più riservato, timido e in fondo titubante. Ma nel sesso curiosamente era l’opposto, era proprio Dari a essere il più attivo.
Erano dunque arrivati o meglio entrati una domenica mattina, prima di mezzogiorno, nella piazza del paese, mano nella mano.

Il vociare, le chiacchere, il rumore di fondo, il tramestio tipico del giorno festivo era cessato di colpo e qualche cane aveva addirittura smesso di abbaiare.
Era calato un silenzio, un silenzio nel quale sembrava quasi poter sentire tutti gli occhi dei presenti ruotare nelle loro orbite e puntare verso di loro.
Questo stato continuò finché non arrivarono alla panchina sotto il monumento ai caduti, dove tre ragazzine li guardavano con la bocca spalancata. Appena Giusy e Dari fecero segno di sedersi, le ragazze si alzarono di scatto e sempre fissandoli si allontanarono di qualche metro.
Si sedettero lentamente. Le loro mani erano ancora l’una nell’altra, ma tremavano leggermente. Intorno a loro si era creato un vuoto, un cerchio di assenze, come se tutti gli altri esseri umani, ad eccezione di loro due, fossero stati risucchiati via.
Dari e Giusy si guardarono negli occhi, un quasi impercettibile cenno di assenso, si alzarono e andarono piuttosto lentamente verso l’altro lato che conduceva fuori dalla piazza.

Dopo, nell’intimità della casa di Giusy, si abbracciarono e si guardarono, ridendo forte per scaricare la tensione. Erano usciti allo scoperto e in quel paesone bigotto, retrogrado e di mentalità gretta non era successo proprio niente. Ridevano increduli di avercela fatta così facilmente, anche se Dari ancora tremava. Così credevano…
… e invece… Dari ripensò al dopo. Da quel giorno per loro finì quella parvenza di pace di cui avevano goduto, anche se voci e vocine da tempo maliziosamente giravano più o meno leggere su di loro. Da allora fu un’infinita serie di lazzi, sberleffi, offese, insulti…

Se da soli venivano quasi sempre bersagliati, ad alta voce, da epiteti dispregiativi come frocio, ricchione, finocchio, insieme queste ingiurie venivano beffardamente declinate al plurale ed ecco: froci,con variazioni tipo frocetti o anche frocioni, accanto a ricchioni o a volte, quasi benevolmente, ‘ricchioncelli’ o finocchietti.

Ogni tanto dovevano anche ascoltare voci dialettali di altre regioni recuperate dagli anziani che da giovani avevano cercato lavoro e fortuna in tutt’Italia, come bardassa, checca, culattone, invertito e da parte di un vecchio e mite professore di latino e greco addirittura il termine ‘uranisti’ che lasciò molto perplessi tutti gli astanti. G. e D. non reagivano, anzi sorridevano e restavano in silenzio con aria di sfida, ma sotto sotto ne risentivano e Dari ancora più di Giusy che era stato sempre più sicuro, quasi tracotante.

Un ragazzotto tarchiato, un bullo del paese, non si limitò agli insulti e una volta si parò loro davanti, lanciando strani gemiti e ondeggiando il posteriore. Mal gliene incolse, perché Giusy con un poderoso calcio, lo fece rotolare sul selciato e i guaiti divennero allora molto reali.
Qualche settimana più tardi sempre sulla via che portava alla piazza si trovarono la strada sbarrata da quattro giovani di un paese vicino. Allora era considerato normale un campanilismo esasperato che spesso sfociava in risse tra i giovani di paesi limitrofi. Di motivi se ne trovavano sempre. Un’occhiata di traverso, un complimento un po’ troppo spinto a una ragazza, le partite di calcio che finivano con l’arbitro chiuso nello spogliatoio e botte da orbi tra le due tifoserie.

Uno dei quattro ragazzotti della squadra ‘punitiva’ li affrontò urlando – Eccoli i ricchioni. Adesso vediamo se vi raddrizziamo a mazzate! – e si lanciò per dare uno spintone a Giusy, che era il più vicino. Ma lui, assiduo frequentatore di palestre e dedito alla boxe lo stese con destro potente alla mascella, mentre il secondo ricevette una gragnuola di pugni in faccia che gli fecero schizzare il sangue dal naso. Dari non era proprio una macchina da guerra, ma riuscì a piazzare un bel calcio nella parte più sensibile del terzo giovinastro che si contorse a terra dal dolore. Il quarto, vista la mala parata, si allontanò velocemente bofonchiando oscuri propositi di vendetta.
Quell’episodio segnò una svolta sorprendente nel rapporto tra loro e il resto del paese. Il medico, il Dott. P. condannò la fallita spedizione punitiva dei bulli del paese vicino con le seguenti parole: ‘I nostri froci, semmai, li meniano noi!
La rivalità campanilistica aveva addirittura vinto l’omofobia!
Da quella volta anche i più facinorosi si tennero alla larga dalla coppia e i commenti offensivi e gli insulti cominciarono a scemare. Allusioni e paroline maliziose riaffioravano ogni tanto ma di fronte alla assoluta mancanza di reazione di G. e D., erano come una leggera increspatura sull’acqua ferma di uno stagno. Subentrò una fase di stanca, alla fine ripetere sempre le stesse parole era noioso e forse si poteva affermare che il paese in qualche maniera, faticosamente, pian piano, si fosse abituato a loro.

In questa “nuova fase” G. e D. godettero di una relativa tranquillità, ma erano felici?
Giusy abitava col padre in una casetta. Il suo appartamento aveva un ingresso separato, la qualcosa gli garantiva un minimo di libertà. Il padre – vedovo e in età avanzata – da tempo non usciva quasi più da casa.
Dari invece viveva con la nonna, non autosufficiente, che quasi sorda e su una sedia a rotelle dipendeva in tutto e per tutto da lui, peraltro il nipote prediletto.
E proprio adesso, dopo tutto quello che avevano subito, affrontato e quasi vinto la loro battaglia e potevano vivere il loro amore, lui voleva porre fine al tutto? E poi perché? Già perché? Che cosa era successo? Niente. Era finita. Inutile cercare spiegazioni o giustificazioni a posteriori. Tutto inutile. Dari lo sentiva prepotentemente dentro di sé, proprio in mezzo al petto.

Era arrivato davanti alla porta di Giusy, bussò e lui aprì con un sorriso.
Dari lo guardò negli occhi e fece per pronunciare quelle tre parole, ma non disse niente, abbracciò Giusy così forte, quasi un avvinghio e cominciò a baciarlo sulla bocca. Un bacio interminabile e profondo.
Giuseppe rimase stupefatto e lo guardò perplesso negli occhi. Ma Dario non lasciò più le sue labbra.

Basta? Finito? Concluso?

© Testo e immagine – Umberto Gorini

La casa

La casa

:: di Umberto Gorini ::

Era calata la sera e accelerai, allungando il passo.
Non vedevo l’ora di arrivare a casa e rivedere Anita, la mia compagna, che sicuramente aveva preparato una bella cenetta. Quando lei era al lavoro toccava a me preparare i pasti, ma non ero di certo alla sua altezza. Anita era infermiera e oltre alla salute provvedeva anche alle grandi e piccole incombenze dei restanti anziani, abitanti di quel paesino sperduto dell’entroterra ligure.

Io, invece, ero la controparte tecnica di Anita. Allestivo, riparavo e risolvevo problemi di antenne, ricevitori, televisioni, telefoni, collegamenti internet etc. Ma forse il mio compito più importante e non retribuito era quello di parlare con le persone, ascoltare quei pochi vecchi rimasti abbarbicati al paese. Come me del resto. Questa riflessione si inserì estranea nel flusso dei miei pensieri: già! Rimanevano avvinghiati a un paese che piano piano, senza uno straccio di negozio, uno spaccio o una rivendita di tabacchi, si stava spopolando.

Lì si sperimentava da tempo la telemedicina e spesso io o Anita eravamo accanto a qualche abitante per prestare assistenza. Per il resto il medico con l’ambulanza veniva – quando veniva – in casi estremi e spesso con troppo ritardo. I figli se ne erano andati e poco dopo anche i genitori li avevano seguiti. Qualcuno era rimasto e nei primi tempi figli e nipoti ritornavano d’estate e per qualche settimana il luogo si rianimava, ma poi ritornava il silenzio e la pace. I verdi prati intorno, i boschi e i sentieri, la tranquillità… tutte cose che io e Anita apprezzavamo ma che ai giovani non interessavano o addirittura detestavano. Così col passar degli anni non venne praticamente più quasi nessuno.

Certo, c’erano internet, Skype e quant’altro che permetteva a molti, se non tutti, di tenersi in contatto col mondo e con figli e nipoti. Per loro ero indispensabile, o almeno così mi sentivo io. Altri, ancora in buona salute e incuranti delle novità tecnologiche, curavano qualche albero di olive, un orticello o andavano per boschi e si fermavano a guardare il panorama dalla collina.

Pensai a quando non ci sarebbe rimasto più quasi nessuno. Allora che cosa avremmo fatto, noi due? Anita da qualche tempo, prima solamente accennando e poi diventando sempre più esplicita, mi aveva detto che desiderava un bambino, anzi più di uno. Io amavo i bambini, ma avevo qualche perplessità per la scuola lontana, per la mancanza di altri bambini con cui giocare e anche per il troppo silenzio del luogo. Ma quella sera avrei preso Anita tra le braccia e messo da parte le mie riserve. In fondo i figli non erano un’ipoteca e un’assicurazione sul futuro? E noi, abbastanza giovani, se non proprio giovanissimi, avevamo ancora molti anni da trascorrere insieme.

Felice, di aver preso questa decisione, cambiai il lato della strada che stavo percorrendo. Da destra a sinistra. Senza pensare, automaticamente. Ma poi, voltandomi, vidi la “casa”.

Era un po’ lontana dalla strada dentro una specie di piccolo parco ormai inselvatichito, circondato da una recinzione di legno molto malridotta.

Mi vennero prepotentemente in mente le dicerie e le voci su quella casa. Voci e dicerie del tipo si “sentiva”, si “vedeva” ma mai niente di più dettagliato. Da ragazzo avevo tentato di saperne di più e i vecchi del paese mi avevano raccontato di una famiglia felice che all’improvviso aveva lasciato tutto per andarsene lontano. Forse in America o in Australia e così la casa era rimasta abbandonata.

Ripensai, sorridendo, alle prove di coraggio che effettuavo da ragazzino con i miei amichetti. Queste prevedevano dapprima di scavalcare il cancelletto sempre chiuso, avvicinarsi alla casa, poi alla porta d’ingresso chiusa e infine la prova suprema: toccare il pomello della porta. Di più non avevamo mai osato, anzi eravamo scappati di corsa, senza sapere il perché e nessuno aveva mai detto o confessato il brivido di paura che avevamo sentito dentro di noi.

Anni erano passati. Molti anni. La “casa” era pian piano – sebbene sempre lì – quasi scomparsa anche dalle chiacchiere dei vecchi sulla panchina. I miei compagni di gioco e di avventura erano pian piano andati via e io, preso dalle molteplici attività, non ci avevo praticamente più pensato o forse avevo semplicemente rimosso il ricordo.

Riguardai la casa ben delineata nel chiarore lunare. Anche se abbandonata sembrava ancora in buono stato. Guardai meglio. La porta dell’ingresso sembrava socchiusa, anzi era socchiusa e da uno spiraglio usciva una lama di luce bianca, molto più bianca di quella lunare.

Possibile? Ci sarà qualcuno? – mi chiesi.

Ritornai sull’altro lato della strada, davanti al cancelletto. Ero indeciso: ritornare sui miei passi, andarmene a casa, stringere Anita tra le braccia e fare progetti per il nostro futuro? Oppure andare a vedere che cosa c’era dietro quella porta socchiusa? Scrollai le spalle: ancora paura della “casa”? Alla mia età?

Aprii il cancelletto che non emise, stranamente, nemmeno un cigolio e percorsi quelle poche decine di metri fino all’ingresso. Qui mi fermai e ricordai che questo era quasi il limite massimo a cui mi ero spinto da bambino. Non si sentiva nessun suono o rumore. Salii i tre gradini e mi avvicinai alla porta. Cercai di guardare attraverso lo spiraglio, ma la luce era così intensa che non riuscii a scorgere niente.

Sfiorai con la mano il pomello, velocemente, come se avessi paura di prendere la scossa o che fosse incandescente. Tirai un lungo sospiro e spalancai la porta.

Prima di varcare la soglia mi concessi ancora una manciata di secondi: scorsi un corridoio. Quella strana luce proveniva proprio dalla porta in fondo a quel corridoio. Oltrepassai la soglia, deciso ma anche molto cauto. Ai lati del corridoio non c’era nulla, nessuna altra porta, nessun mobile o quadro.

Andai verso la luce, verso quella porta aperta…
Entrai in una grande stanza piena di quella luce strana, ma spoglia e disadorna. L’unico oggetto presente, una poltrona posta esattamente al centro della sala. Le finestre erano coperte da pesanti tende che lasciavano trapelare appena un lucore lunare. Da dove veniva dunque tutta quella luce?

Mi avvicinai alla poltrona, di stoffa verde. La guardai attentamente. Passai un dito sullo schienale. Nemmeno un granello di polvere. “Strano” – pensai. E girai ancora con lo sguardo l’intera stanza, ma già sapevo che l’avrei fatto.

Mi misi seduto sulla poltrona.

Si stava molto comodi, anche se cedeva leggermente adattandosi alla mia figura, piuttosto pienotta – grazie alle arti culinarie di Anita alle quali opponevo da tempo una sempre più debole resistenza.

Dopo aver assaporato quella sensazione di comodità, mi chiesi che cosa stessi in fondo facendo lì, in quella stanza, seduto su quella poltrona, quando davanti ai miei occhi si aprì una visione, o meglio mi trovai completamente immerso in una scena in cui due giovani si rincorrevano su una spiaggia, giocando, scherzando per poi baciarsi, scambiandosi sguardi a dir poco intensi. Io non soltanto vedevo, ma sentivo il rumore del mare, l’odore salmastro, gli stridii dei gabbiani. Sentivo la sabbia, le alghe sotto i miei piedi nudi. Ero così vicino a questi due giovani felici e sconosciuti che avrei potuto sfiorarli con la mano.

Ma all’improvviso tutto si dissolse e mi trovai in tutt’altro ambiente. Una donna a cavallo, una donna matura. Un’andatura leggera tra colline piuttosto brulle adornate da qualche alberello striminzito. Sembrava assorta in pensieri. Percepivo che era in difficoltà, sentivo il dorso del cavallo sotto di me, il suo sudore e il suo sbuffare mentre arrancava un po’ in salita per un sentiero poco battuto. A che cosa pensava, con gli occhi rivolti in basso, mentre teneva distratta le redini con una mano?

Ma non ebbi tempo di riflettere su qualche ipotesi che di nuovo qualcos’altro si aprì ai miei occhi. Un uomo sedeva accanto a un letto, dove una donna giaceva immobile, tra apparecchiature, tubi, cavi e fili di ogni genere. Certamente un ospedale. L’uomo la guardava fisso e silenzioso. Lei era completamente immobile, con gli occhi chiusi. L’uomo si avvicinò e la baciò delicatamente sul volto: sulla guancia, sulla fronte, sulla bocca. Baci lievi e leggeri, quasi più accennati che dati. Su tutto aleggiava un forte odore di medicinali e di…

Non riuscii a finire il pensiero che mi trovai in un ambiente pieno di rumore e di odore di metallo. Uomini e donne montavano pezzi meccanici e lamiere, intorno a una scocca di automobile. Braccia meccaniche di robot ruotavano su sé stesse. Sul pavimento si vedevano pezzi di metallo, viti, chiavi e altri attrezzi sul nudo cemento. Gli uomini e le donne lavoravano con gesti ripetitivi e quasi non scambiandosi una parola. Ogni tanto certe macchine emettevano sibili o segnali d’allarme e spie rosse lampeggiavano furiose.
Mi tornò in mente quando da giovane entrai in fabbrica e vi restai per un anno esatto. Ma non era per me.

La fabbrica sparì e una torma di bambini eccitati prese il suo posto. Correvano lungo una strada coi visini rossi, urlando e prendendosi in giro con uno sfottio continuo e assillante. Credetti di riconoscerne qualcuno, ma chi? Un bambino rimase indietro. I compagni lo chiamavano, lo invitavano ad andare con loro, ma lui li fissò silenzioso e prese la direzione contraria.

Poi immagini e situazioni, alcune molto tristi, altre felici e altre ancora indecifrabili si susseguirono sempre più rapidamente in una ridda di colori e suoni e sensazioni fortissime.

Quanto tempo era trascorso da quando mi ero seduto su quella poltrona? Tanto? Poco?

Poi calò il silenzio. Luci e colori scomparvero e mi vidi seduto nella poltrona in quel luogo disadorno. Vidi me stesso, Cesare. Guardai la mia faccia, guardai dentro i miei occhi spenti e allora capii.

© Testo – Umberto Gorini
:: Editing a cura di Stefano Angelo e Salvina Pizzuoli ::

© Immagine – Elena Barsottellilink su Instagram

Ti è piaciuto questo racconto? Non perderti allora le prossime uscite! Seguici!

:: ITALIAALTROVE, Associazione Italiana Francoforte, unisce le persone e stimola le collaborazioni. Questo racconto è un frutto indiretto di questa associazione che tanto fa per la comunità italiana residente a Frankfurt am Main ::


L'urlo di Munch con un "grrr"

Grrr

:: di Umberto Gorini ::

Le 11 e 11.
Questi quattro numeri uguali che ricorrevano – con le 22 e 22 – due volte nell’arco delle 24 ore, erano dapprima state un semplice caso ma poi pian piano questa sequenza di cifre, era diventata, se non una piccola fissazione, un’innocente idiosincrasia che lo conduceva più o meno coscientemente a fissare appuntamenti, incontri e altri avvenimenti sempre a un orario a quattro cifre, dove quello più importante della giornata era rappresentato per l’appunto dalle undici e undici. La sua personale kabala tralasciava i quattro zeri della mezzanotte. Lo zero non era per lui.

Una piccola venatura di irrazionalità in Gioacchino che doveva il suo nome un po’ all’antica alla melomania dei suoi genitori, ma tutti in agenzia e in privato lo chiamavano Joe. Si alzò dalla comoda poltrona del suo ufficio ovattato e silenzioso, grazie al perfetto isolamento acustico, che aveva ottenuto adducendo l’esigenza di concentrarsi al massimo e visti i suoi successi era stato accontentato, in tutto e per tutto.

Era arrivato il momento e “Joe” era pronto. Si guardò allo specchio.

Il pizzetto ben curato, tenuto cortissimo. I lineamenti del viso leggermente irregolari con quegli zigomi sporgenti. I capelli lievemente brizzolati e l’intensità dei suoi occhi cerulei, tanto velati di malinconia quanto spesso attraversati da una tensione interna, rimandavano a un volto vissuto, ma da eterno ragazzo.

Sapeva bene di esercitare un forte fascino su chiunque gli si avvicinasse – donne o uomini che fossero, anche se Joe era prevalentemente etero.

Aggiustò il colletto della camicia, senza cravatta, si mise la giacca che aderiva bene ma senza far troppo risaltare il suo corpo asciutto e tonico e si concentrò mentalmente sulla presentazione che avrebbe dovuto tenere tra poco. Si trattava della nuova campagna, per un’importante multinazionale, che valeva più della metà del bilancio della grande agenzia pubblicitaria di cui egli era uno degli art director. Quello più di successo, più stimato e di conseguenza quello più remunerato e ascoltato.

Si concesse un sorriso compiaciuto. Aveva avuto un’idea formidabile, qualcosa di mai visto o sentito prima ed era sicuro che sarebbe stata la campagna pubblicitaria più efficace nella storia del marketing e ça va sans dire anche la più costosa. L’idea fulminante e geniale – la modestia non era propriamente la sua virtù – era quella di non far vedere, né nominare, il prodotto in questione, perlomeno in una prima fase in cui, in brevi videoclip, i personaggi, in diverse situazioni, improvvisamente si ammutolivano nel bel mezzo dell’eloquio e non pronunciavano una determinata parola, proprio quella parola-chiave che avrebbe poi successivamente richiamato il prodotto da pubblicizzare. Joe contava così di suscitare una forte curiosità che nella seconda fase veniva ancor più acuita, se non esasperata, quando degli importanti testimonial, attori e attrici molto conosciuti, avrebbero interagito con i personaggi delle videoclip suggerendo loro – ma inutilmente – la possibile parola mancante e la terza fase della campagna avrebbe infine svelato il mistero.
Ma prima doveva convincere il board dell’agenzia – due donne e un uomo. Era l’incarico più importante dell’anno. Non poteva fallire e non avrebbe fallito.

Si schiarì la voce e davanti allo specchio ripeté mentalmente quello che aveva preparato in mesi di duro lavoro. Avrebbe cominciato con un complimento alla delegazione, qualcosa di leggero ed elegante che avrebbe però lasciato il segno, specialmente sulle due donne.
Dunque iniziamo, si disse mentalmente. Aprì la bocca per pronunciare: “Gentili Signore e gentili Signori…” ma l’unico suono che ne usci fu soltanto un: “grrr…”

“Grrr?!?” ma che diavolo… stava ancora davanti allo specchio a bocca aperta, sorpreso.

Pochi secondi di smarrimento e di nuovo disse o perlomeno pensò di dire: “Gentili Signore…” ma emise di nuovo uno sgradevole “grrr…”, più sgradevole del graffio di un’unghia su una lavagna!
Era così sorpreso e sconcertato che vide il suo viso riflesso nello specchio fare una specie di smorfia. Non sapeva che pensare. Prese un bicchiere d’acqua e ingollò tutto in un sorso, facendo una specie di gargarismo.
Inspirò profondamente e ricominciò “Signore e…” ma un terribile “grrr…” fu tutto quello che emise!
Incredibile! Non riusciva più a parlare. Ma non era possibile, non poteva essere possibile. Forse un temporaneo indebolimento dell’apparato vocale, un qualche impedimento o un blocco psicologico?

Forse era meglio provare con un’altra frase o parola. Pensò di dire: “Oggi è il primo dicembre”.
Aspettò un paio di secondi, si rilassò, inspirò profondamente e disse: “grrr…!”

Si accasciò sulla poltrona del suo ufficio perfettamente ovattato e prese la testa fra le mani. E adesso? Tra un’ora ci sarebbe stato il meeting. Fu preso dal panico! Come fare? Rimandarlo? Ma se non poteva nemmeno fare una telefonata.
Doveva recuperare immediatamente la capacità di parlare. Non sentiva nessun dolore, si palpò la gola, si tocco dappertutto. Niente! Poteva solo essere un default, un blocco, ma dovuto a cosa? Aveva fatto qualcosa negli ultimi tempi? Si sforzò di pensare, ma non gli venne in mente niente. Aveva forse offeso qualcuno o qualcuna? Fatto qualche torto? Cattive azioni? Si sforzò ancora frugando nella propria mente. Ma niente! Se qualche volta aveva preso un’idea di una o di uno dei suoi collaboratori, l’aveva poi rielaborata, trasformata e sviluppata facendola diventare sua e poi non era Picasso che diceva che i buoni artisti copiano, ma i grandi artisti rubano?
E anche se fosse? Come potevano avergli fatto perdere la favella? Ma in fondo che cosa c’è più falso dei propri ricordi. Non riusciva più a pensare chiaramente, la testa gli girava, i pensieri o meglio i frammenti di pensieri si affollavano caoticamente nella sua mente.

E adesso? Perché non riusciva più a parlare? Lui che nell’eloquio elegante, arguto, sapido e ricco di significati aveva fondato la sua carriera e la sua fortuna.
Che poteva fare adesso? Chi poteva aiutarlo o perlomeno fornirgli una spiegazione, un rimedio immediato ed efficace… correre da un medico? In un ospedale? O meglio da uno psichiatra?
Era frastornato e non riusciva a trovare una soluzione, una qualche via d’uscita da questo incubo.

Si sforzò di calmarsi, di riflettere. Di entrare in se stesso, in sintonia con il suo karma e lasciare che il suo io vagasse per l’etere. Uno stacco mentale, uno spazio di meditazione. Non che Joe credesse veramente a queste pratiche esoteriche, ma provare in questa situazione disperata non costava nulla. Si distese sul divano, chiuse gli occhi, respirò profondamente e si lasciò andare. Dopo pochi minuti li riaprì. L’orologio segnava le 13 e 13 e questo era un buon segno. Tremando per la paura di fallire aprì la bocca e pronunciò… un terrificante “grrr…!”

Maledizione! Tutto inutile! L’idea gli attraversò la mente come un lampo: noo, ricorrere a “LUI” no!
Era cresciuto in una famiglia cattolica, ma pian piano si era distaccato dalla fede e anzi aveva avuto accese discussioni sulla religione – su ogni religione – e sull’esistenza di un qualsiasi Dio o Entità Suprema, dichiarandosi pubblicamente ateo e difendendo la sua posizione anche in aspre discussioni e dibattiti.

Ma in questi frangenti? Gli venne in mente la scommessa di Pascal. In effetti non costava nulla credere in Dio e lui in questa situazione non aveva veramente più niente da perdere.
Si ricompose, si inginocchiò o meglio cadde in ginocchio davanti a una parete dove era appesa una grafica astratta e balbettò mentalmente un lacerto di quella preghiera che aveva recitato così spesso da bambino.
Rimase in ginocchio e in silenzio. Poi si alzò e guardò fuori dalla finestra. Non percepiva nessun cambiamento. Ma come aveva potuto credere a queste fantasticherie!
“Sono proprio uno scemo!” disse. E queste parole risuonarono chiare e limpide nella stanza. Aveva sentito le sue parole! Le aveva sentite! Eccitato provò a pronunciare: “Gentili Signori e Signore” e risentì la sua voce, provando un’emozione fortissima. Aveva funzionato! Era di nuovo capace di parlare! Ma cosa era successo? Un miracolo? Proprio a lui, ateo sfegatato? Beh ateo perlomeno fino a pochi minuti fa. D’ora in poi avrebbe cambiato il suo atteggiamento di fronte a “LUI”, all’Essere Supremo…

Adesso pensava ad alta voce ed era un vero piacere sentire riecheggiare la sua voce e le sue parole.
Si sentiva di nuovo leggero, pieno di energia. Cercò una qualche spiegazione dell’accaduto.
Forse una specie di legge del contrappasso. Aveva concepito una campagna pubblicitaria in cui i soggetti venivano improvvisamente privati della favella e dunque anche egli stesso… ne era stato privato? Ma “LUI” che cosa c’entrava? Che, adesso si occupava di queste minuzie? Chissà se poi era stato proprio il “SUO” intervento a salvarlo. Forse era stato un po’ troppo precipitoso a credere addirittura a un salvataggio divino.

Guardò l’orologio: era ora di andare. Ci avrebbe riflettuto dopo, con calma. Raccolse le cartelle sulla scrivania e mentre lo faceva riavvolse come in un nastro il suo discorso iniziale.

Giunto di fronte alla sala delle riunioni, aprì con energia la porta, entrò e quando fu a pochi passi dalla sua postazione si rivolse ai presenti con un gioviale “Buongiorno…” ma dalla sua bocca uscì un terribile, lungo, spaventoso, orrido:

“grrr…”

© Testo – Umberto Gorini
:: Editing a cura di Stefano Angelo e Salvina Pizzuoli ::

N.B. L’immagine di copertina è stata reperita sal sito artemagazine e ritoccata con GIMP.
Sull’ “Afonia” (presunta) di Munch, leggere anche questo.

Ti è piaciuto questo racconto? Non perderti allora le prossime uscite! Seguici!

:: ITALIAALTROVE, Associazione Italiana Francoforte, unisce le persone e stimola le collaborazioni. Questo racconto è un frutto indiretto di questa associazione che tanto fa per la comunità italiana residente a Frankfurt am Main ::


L' Urlo di Munch con un "grrr"

L’ Urlo di Munch, Grrr

Oggi, mentre stavo cercando una copertina per il nuovo racconto di Umberto Gorini, che uscirà a febbraio, mi sono imbattuto nell’ “Urlo” di Munch. Più precisamente in una litografia in bianco e nero del famoso dipinto. L’immagine della litografia era stata usata (nell’aprile del 2019) dalla rivista artemagazine, che riportava una nuova interpretazione dell’opera da parte di Giulia Bartrum, curatrice della mostra del British Museum: “Edvard Munch: Love and Angst”.

A quanto pare, dietro la litografia è presente un’annotazione dell’artista che dice “ho sentito il grande urlo attraverso la natura”. Il protagonista del dipinto (del 1893) e della litografia realizzata successivamente sarebbe una persona che si copre le orecchie per proteggersi dal potente urlo della natura. Un titolo più appropriato per l’opera potrebbe allora essere “L’urlo della Natura” (secondo il British Museum). Il protagonista non starebbe quindi urlando, al contrario. Si tappa le orecchie e resta attonito, ammutolito, di fronte alla potenza e alla bellezza che lo circonda, che lo pervade. (A questo punto potevano anche chiamare l’opera l’ “Afonia” di Munch, ma non divaghiamo ndr)

L’ispirazione per il quadro (a quanto pare una doppia ispirazione ndr) sarebbe nata da un paesaggio norvegese. Passeggiando per un fiordo Munch fu colpito da un tramonto, dal cambio repentino del colore del cielo – un cielo rosso sangue – accompagnato a sua volta dal fragore di un’onda del mare.
La seconda ispirazione deriverebbe da una mummia peruviana che l’artista vide, qualche anno prima (nel 1889), nel Museo etnografico del Trocadero di Parigi.

Non sono un esperto d’arte e mi fanno sempre un po’ sorridere gli articoli pieni di “sarebbe”, “potrebbe” ecc. Parto sempre dal principio della libertà di ricezione e interpretazione di un messaggio, soprattutto se artistico.
Quindi, a prescindere dal fatto (che fatto, di fatto non è), questa news mi ha stimolato la fantasia e mi sono messo a giocare in questo modo con l’opera di questo artista.

So già che qualche purista sarà pronto ad accoltellarmi. Mi viene però in mente, sempre sorridendo, la canzone del mitico Caparezza: “Non me lo posso permettere”. Nel senso, che se potessi contratterei un professionista per disegnare le copertine dei nostri piccoli racconti, ma appunto: non me lo posso permettere :-))

Aspetto pareri (da chi se ne intende) sull’articolo e pareri (da chi se ne intende un po’ meno come me) sulle idee per la copertina, nella piacevole attesa dell’uscita del racconto di Umberto Gorini: “Grrr”

Articoli di riferimento:
L’Urlo di Munch, una nuova interpretazione dal British Museum
L’Urlo di Munch? Fu ispirato da una mummia peruviana vista a Parigi
La mummia che ispirò l’Urlo

Ti piace questo blog? Non perderti allora le prossime uscite! Seguici!

In più…

Gli amori segreti di F.

Gli amori segreti di F.

:: di Umberto Gorini ::

– Colpito e affondato!
Dissi tra me mentre mi allontanavo con la coda tra le gambe. Era la prima volta che F. mi aveva preso in giro. E più che in giro pensavo ad un’altra espressione, molto più eloquente.

Camminavo a testa bassa, pieno di rabbia, mulinando l’aria con le mani.
Io, P., proprio io! L’uomo più tranquillo del mondo, anzi dell’universo!

È vero, l’incontro era stato fortuito. Prima delle misure precauzionali contro la pandemia, durante i nostri saltuari ma intensi colloqui, F. mi aveva gratificato delle sue confidenze e mi aveva raccontato con dovizia di particolari e giudizi taglienti le sue numerose per non dire innumerevoli avventure sessuali. Io ne rimanevo estasiato, sia per la di lei franchezza ma anche – lo ammettevo malvolentieri a me stesso – perché mi provocavano un timido “solletichino”, o meglio, un timido risveglio di antichi e ormai sopiti impulsi e pensieri.

Eravamo in farmacia, alla regolare distanza l’uno dall’altro di un metro e mezzo, provvisti di mascherine e guanti. F. era nell’altra fila, alta, imponente. La sua presenza era avvertibile, percepibile, anche senza guardarla. La sua era una bellezza che non rispettava né i canoni classici, né quelli “trend” dei tempi moderni, ma così vitale e prepotente che l’anziana donna, davanti, e l’uomo dietro di lei, tenevano una rispettosa distanza, addirittura maggiore di quella prevista dalle vigenti regole sul distanziamento sociale.

Le due file avanzavano lentamente. Davanti al banco vi erano due anziani con in mano blocchi di ricette spessi come elenchi telefonici. Quando si trovò pressoché alla mia altezza, le feci un cenno di saluto:
– Ciao F., allora come va la… “cosa”?
Avevo fatto una piccolissima, quasi impercettibile pausa prima di “cosa”. Non mi aspettavo di certo una risposta in chiaro e ricca di dettagli, ma a me sarebbe bastato anche un piccolo segno, qualche parola apparentemente banale ma, come in un codice segreto, piena di significati profondi che mi lasciasse intuire…

F. mi guardava con quei suoi occhi ammiccanti:
– Quale “cosa”?
Il fatto che anche lei avesse fatto una piccola pausa prima di “cosa” mi fece intendere che aveva invece perfettamente capito di che “cosa” si trattasse.

– Quella… “cosa”
Ero visibilmente in imbarazzo, la signora davanti a me, della mia fila, aveva girato leggermente il capo nella mia direzione e potevo quasi notare le sue orecchie tese all’ascolto.
– Quella “cosa” che… insieme… al calduccio…
Aggiunsi balbettando un po’.
– Ah! Purtroppo niente calduccio! Il riscaldamento si è rotto e con questo tempo sono al freddo. Rispose F. con un’aria che voleva ispirare compassione per il guasto improvviso.

Possibile che F. non avesse veramente capito?
Ripresi con più coraggio:
– Noo… è quando i battiti del cuore vanno all’impazzata e…
E lei sorridente:
– Proprio per quello, sono qui in farmacia con la ricetta del cardiologo.

Ma “questa” volutamente vuole equivocare! Lo sa benissimo quello che voglio. Si prende gioco di me? Sì che si sta prendendo gioco di me. I miei battiti stavano aumentando per emozioni diverse da quelle che avrei voluto provare.

La guardai quasi implorante e azzardai un ultimo tentativo:
– Ehm… sì, ma… nel letto…
Abbassai talmente la voce nel pronunciare “nel” che si sentì appena “letto”.
– Ah, adesso capisco! Parli del libro che mi avevi prestato. “La pace dei sensi”. Interessante, ma ancora non l’ho “letto” tutto. Sottolineando con evidente malizia, “letto”.

Tacqui. Era il mio turno.

F. si era sbrigata più velocemente. Mi passò vicino e per un attimo mi piantò addosso quei suoi occhi da dea sprezzante, pieni di mistero. Poi scomparve.

Mi avviai frettolosamente verso l’uscita più confuso che deluso, sentivo una sorta di furore montare impetuoso dentro di me. Feci un profondo respiro nell’inutile tentativo di recuperare la calma, per obbligarmi a riflettere su quello che era appena successo. Che avrei dovuto fare? Cercare di contattarla per esigere una improbabile spiegazione era pressoché impossibile, poiché F. rifiutava l’uso del telefono, dei social e naturalmente degli smartphone e per fissare i nostri incontri, si affidava a bigliettini trasmessi per via postale e senza mittente.

Ma forse avevo fallito nel mio ruolo. Forse mi ero dimostrato, in alcuni momenti, inadeguato. Forse F. aveva colto nei miei occhi – quando mi riferiva le sue oscene prodezze – un senso di smarrita riprovazione? O inconscia gelosia?
Eh sì, perché F. aveva una formidabile gamma espressiva, a volte sguaiata fino all’inverosimile, a volte invece mi sorprendeva con una delicatezza e una vena lirica novecentesca che mai avrei sospettato in lei.

Ma ormai era scomparsa, ed io mi ritrovai paralizzato guardando le luci intermittenti di un semaforo, non ricordo nemmeno più quale. Ricordo solo un respiro affannoso, annebbiante, sgradevole… ma forse non era altro che l’effetto della “mascherina”.

© Testo – Umberto Gorini

N.B. L’immagine di copertina è stata trovata sul Web e ritoccata con GIMP, non siamo riusciti a risalire all’autore.

:: ITALIAALTROVE, Associazione Italiana Francoforte, unisce le persone e stimola le collaborazioni. Questo racconto è un frutto indiretto di questa associazione che tanto fa per la comunità italiana residente a Frankfurt am Main ::

:: Editing a cura di Stefano Angelo e Salvina Pizzuoli ::


Il vaso di Pan&Dora

:: di Umberto Gorini ::

Aprì gli occhi. La prima cosa che vide fu il vaso, riccamente dipinto, posto su un piccolo tavolo al centro della sala. Il vaso era aperto e il coperchio per terra. Cosa era accaduto?
Aveva dormito, ma quanto a lungo? Forse secoli…

Accanto a lei giaceva Pan, suo fratello , ancora immerso in quello stato di mezzo tra sonno e veglia.
Lo guardò con attenzione: il volto del giovinetto con gli occhi chiusi sembrava persino grazioso, ma lei conosceva a sufficienza la sua indole e il suo, a dir poco, pessimo carattere. In qualche modo poteva anche capirlo, poiché lei, Dora, forgiata da Efesto e istruita da Ermes, aveva ricevuto dagli dèi infiniti doni: bellezza, virtù, abilità, grazia, astuzia e ingegno. Il fratello, invece, creato per primo da un piuttosto inesperto lavorante della fucina di Efesto, aveva un corpo deforme, un’anima piena di livore e un carattere, brutto e beffardo, che lo portava a escogitare continuamente cattiverie e burle verso gli abitanti dell’Olimpo.
Per di più Ermes – in preda a chissà quale sghiribizzo – lo aveva chiamato Pan, ma il fauno, re delle selve, non l’aveva presa bene, tanto è vero che spesso scagliava il suo flauto contro quel briccone di suo fratello che lo derideva per il suo aspetto caprino.

Vaso di PanDora

Di colpo a Dora ritornò tutto in mente: la proibizione di Zeus di non aprire mai e per nessuna ragione il vaso, l’insistenza di suo fratello Pan, che naturalmente l’aveva tormentata e abilmente stuzzicata, così a lungo da farle decidere di dar furtivamente un’occhiata…
Ma appena aperto, dal vaso uscirono tutti i mali che si avventarono furiosi sul mondo: la vecchiaia, la gelosia, la malattia, il dolore, la pazzia e il vizio si abbatterono sull’umanità.
Subito dopo Pan&Dora erano caduti in un sonno profondo e senza sogni. Forse per punizione di Zeus. Una punizione comunque “lieve” rispetto alle saette con cui il Re degli dèi usava incenerire i disubbidenti.

Adesso Pan era completamente sveglio e si stropicciava gli occhi come fosse un bambino. Guardava ora Dora ora il vaso.
“E adesso, come possiamo riparare al danno fatto?” – disse Dora più a sé stessa che a Pan.
“Una volta, per puro caso, ho sentito Efesto dire che aveva lasciato la SPERANZA in fondo al vaso!” – disse Pan.
“Vediamo se riusciamo a recuperarla!” – esclamò Dora.
Si avvicinarono lentamente e guardarono nel fondo del vaso. Sembrava essere completamente vuoto, dopo che i mali ne erano usciti a frotte, come uno sciame impazzito di vespe.
Pan aguzzò poi lo sguardo: “Guarda sorella, sul fondo sembra muoversi qualcosa…” Allungò timorosamente la mano e la ritirò con uno scatto… “Una sardina!” – gridò Dora vedendo il pesce che sguizzava tra le dita del fratello.
Pan si rivolse a Dora con il suo solito tono beffardo: “E questa, sarebbe la speranza per l’umanità? Una sardina?”
E fece per rigettarla, con sdegno, nel vaso.
Dora lo guardò a lungo… e gli disse con molta calma: “Una sardina forse no, ma molte?”

© Testo e immagine – Umberto Gorini

:: Questo racconto è stato realizzato durante il laboratorio di scrittura creativa di Mattia Grigolo – Le balene possono volare – svoltosi a Frankfurt am Main il 23 e 24 novembre 2019 e organizzato da ITALIAALTROVE, Associazione Italiana Francoforte. Editing a cura di Stefano Angelo ::

:: Audio in lavorazione a cura di Stefano Angelo ::

____________________________