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PUBBLICAZIONI EDIDA

Passione per la scrittura
ESPLORA
La lite

Voltiamo pagina

:: di Stefano Angelo ::

Che bella giornata per una passeggiata in questo parco. Non sono mai stato qui prima d’ora. Mi piace. Il sole, in questo momento, è caldo e mi accarezza il viso… Me lo godo e cerco di rilassarmi. Non c’è nulla che possa rovinare questa mia giornata, ne sono assolutamente certo.

Nella direzione opposta vedo una persona che si avvicina, quasi correndo. Non vedo bene da lontano e non ho voglia di mettermi gli occhiali, ma qualcosa di quella persona mi attrae…

– Ciao, come va, che sorpresa! [dico io, emozionato e confuso]
– Ciao, come stai?
– Non posso crederci! Come stai, che mi racconti?
– La verità è che ho fretta.
– Ok, capisco. Ma avrai cinque minuti per chiacchierare un po’ con un conoscente. Con un vecchio amico? Si potrebbe dire…
– Non lo so davvero. Non credo sia molto utile parlare.
– Come “non sia utile parlare”. Ma ne ho bisogno! [leggermente alterato]
– Vediamo Dante, di cosa hai bisogno?
– Come “di cosa ho bisogno”? Te ne sei andata una mattina, all’improvviso, senza lasciare traccia. Ho provato a chiamarti, a scriverti, ma niente. Sparita.
– Le cose si rompono, Dante. E le cose rotte non sempre possono essere riparate. A volte non c’è colla che tenga.
– Come “non c’è colla che tenga”. Ma se eravamo super incollati. Due anni di convivenza… e ora mi dici che non c’è colla.
– Beh no, Dante, non c’è nessuna colla. E ora, per favore, lasciami andare… i cinque minuti sono passati.
– Però che dici! Non capisci che sono ancora molto innamorato di te. Mi hai spezzato il cuore. Non mi hai lasciato nemmeno un biglietto. Ma ho bisogno, adesso, di sapere cosa è successo. Ne ho bisogno per voltare pagina, per andare avanti. Me lo devi.
– Ascolta Dante, non sono la tua Beatrice, non lo sono mai stata. E non devo niente a nessuno.
[afferrandola per il braccio] Adesso io sarei “nessuno”? Quanto sono misere le nostre vite. Per favore Bea. Aspetta, non puoi lasciarmi di nuovo così, senza alcuna spiegazione. Devo sapere, ho bisogno di sapere, che non è stata colpa mia.
– Ehi, non toccarmi o mi metto a urlare. Sono in ritardo, oggi è un giorno importante per me e c’è qualcuno che mi aspetta, capisci? E ora devo proprio andare!
– Vediamo Bea. E chi sarebbe questo “qualcuno” così importante da farti cancellare due anni di vita trascorsi insieme, come se non fosse mai successo nulla?
– Ascoltami Dante, ma ascoltami bene. Dico sul serio. Come ti ho già detto, non sono la tua Beatrice, non sono il tuo giocattolo. Mi chiamo Clara, per l’amor del cielo, Clara. Non mi hai quasi mai chiamato con il mio vero nome, non ti sei mai fatto domande, non ti sei mai fermato a pensare se quello stupido gioco mi piacesse davvero o no. Sei schiavo della tua immaginazione. Non presti mai attenzione ai dettagli. Non presti mai attenzione agli altri. Vivi dei tuoi film, costruisci le tue storie e i tuoi personaggi. Vuoi sapere la verità? Il tuo film è stato la mia gabbia. Sei così sognante e così innamorato, ma non di me, cazzo, non di me… solo dei tuoi sogni del cazzo. Capisci ora? La tua “Beatrice” non è mai esistita. La verità è che tu vivi fuori dal mondo, fuori dalla realtà.
– “Verità”, che parola ingannevole. Ma cos’è la verità, cos’è la realtà? Mi stai dicendo che una persona non ha il diritto di sognare? Ho immaginato che stessimo sognando insieme e ora mi dici che era tutta una bugia? Non riesco a sopportarlo. Non voglio sopportarlo!
– Dai Dante, smettila con le stronzate melodrammatiche e comportati da adulto, per una volta. Ho cercato in tutti i modi di darti dei segnali, di farti capire che non ero molto felice e che quello che provavo per te non era così forte. E più tu ti ossessionavi col “nostro” amore e più io volevo scappare. Ma niente. Tu avevi la tua visione e io ero ingabbiata nel tuo mondo.
– Ma cosa mi stai dicendo, come puoi pretendere che io non crolli, di nuovo. Ti ho amata. No – che dico – io ti amo, ne sono sicuro. E ora tu mi dici che ti sei spenta all’improvviso e che è stata tutta colpa mia!
– Beh, Dante. Riflettendo. Forse ti ho rispettato troppo. Forse avrei dovuto essere più diretta. Volevo lasciarti senza traumi ma non trovavo il modo, vedendoti… così innamorato, così cieco. Ma ripeto: eri innamorato del tuo amore, della tua visione, del tuo film. Non ti importava affatto di me.
– E così hai deciso di distruggermi, tutto in una volta.
– È vero, non ho avuto la forza, la capacità, di spezzare il tuo sogno prima e con delicatezza. Non avevo voglia di discutere con un muro. Mi aspettavo qualcosa da te, ma niente. Mi hai fatto impazzire. Ti guardavo e mi chiedevo come potesse esistere una persona così incapace di vedere la realtà delle cose. Alla fine, per me è stato più facile alzarmi e fuggire. Rompere le catene con un solo colpo.
– Catene, hai detto? Sei una persona egoista. Molto egoista. Non sei la mia Beatrice, come ho potuto essere così cieco.
– Cosa stai dicendo Dante. Ho resistito per te, solo per te, aspettando il tuo risveglio. Ma ho sbagliato. Dai, lasciami andare, Dante. In tutti i sensi. È tardi, troppo tardi. È inutile cercare un colpevole. E le cose rotte non possono sempre essere riparate, soprattutto in amore.

Senza sole, mi lascio cadere su una panchina. Mi stringo la testa tra le mani mentre, con la coda dell’occhio, osservo la schiena di Clara allontanarsi da me, priva di dubbi e per sempre.

© Testo – Stefano Angelo
:: Editing a cura di Stefania Angelo e Salvina Pizzuoli ::
Immagine di copertina di Viki_B (Pixabay licence), modificata.

:: Questo dialogo è la trasposizione, rivisitata, di una improvvisazione teatrale (svoltasi in una scuola di Madrid) a cui ho avuto il piacere di assistere. Insieme a “La lite” è il secondo racconto con cui cerco di esplorare il problema della incomunicabilità a livello di coppia ::

Il dito medio

Il dito medio

:: di Stefano Angelo ::

– Non ce la faccio più.

– Che succede chavalín?

– Smettila di parlarmi in “itañolo” che non vivi più in Spagna. E poi non sono più un ragazzino.

– Come che non vivo più in España, ma se l’Europa dovrebbe essere una Spagna allargata!

– Ma che dici nonno? Allora i tedeschi potrebbero dire che l’Europa dovrebbe essere una Germania allargata! Ma non è così!

– Guarda che i teutoni ci hanno già provato una volta e secondo me continuano a provarci, anche se in forme diverse…

– Ma bastaaa! Che nel 1939 non eri nato nemmeno tu!

– Dettagli (e poi pensavo un po’ anche al dodicesimo secolo).

– Ma che dettagli, piuttosto spiegami perché solo noi usiamo la parola “tedeschi”. In spagnolo si dice Alemania y alemanes, in inglese Germany and Germans, in francese si dice Allemagne et Allemands, perché diamine noi usiamo la parola “tedeschi”?

– Ma quante lingue tu sai? E poi se continua così saremo sul serio tutti “tedesken”, studia solo il tedesco che è meglio, va…

– Ma basta con ‘sta crisi post elezioni. Anche il comunismo è morto e in fondo non è servito a niente, anzi ha fatto solo danni.

– “Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra?”

– Smettila di citare Gaber e dimmi qualcosa di sensato.

– “L’ideologia, l’ideologia, malgrado tutto credo ancora che ci sia”

– Al massimo puoi dire “spero” ancora che ci sia…

– Ma basta “non parlare” di politica, veniamo “a noi!” (accennando, ridendo, il saluto fascista) Cosa ti turba nipotino mio? Luce dei miei occhi, lampadina del mio bagno da 100 watt.

– Sei solo invidioso perché la nonna mi diceva che sono “bello come il sole” mentre a te non lo ha detto mai (ridendo di gusto).

– Quisquilie. Allora, vuoi dirmi perché sei venuto a disturbarmi mentre mi stavo godendo il mio sigaro toscano?

– Semmai ti stavi vedendo un porno, dai nonno che li so tutti i tuoi segreti.

– Zitto zitto, con tutti i droni che ci sono, altro che Orwell.

– Ma se ne usi uno anche tu per spiare le vicine di casa!

– Appunto (ridendo di gusto). Ma alla mia età non possono mica mettermi in prigione.

– Hai ragione! (ride anche il nipote, citando Gianna Nannini)

– Allora, vuoi svelarmi l’arcano?

– Va bene nonno. Torniamo seri. Il problema è che non sopporto più la mamma.

– E che succede? Cosa avrà mai fatto questa volta quella santa donna.

– Mi dice che non posso fare “il dito medio”, che è volgare.

– E non ha ragione?

– Ma se a scuola lo fanno tutti, anche i professori, a volte.

– Non farmi ritirare fuori la storia del salto nel pozzo, per favore.

– Ma non centra l’imitazione o l’esser succube delle mode, come dici te. Il fatto è che ormai sono grande e posso dire le parolacce, anche con le mani se voglio.

– Di nuovo con “l’erba voglio”, che lo sai già “la un nasce neanche ’n Boboli”.

– Nonnooo ma basta con le citazioni e basta dirmi che non posso fare quello che voglio io fino a quando non mi metto a lavora’, che tanto di lavoro ce n’è poco.

– Questo è vero, però il rispetto delle regole di una casa è una cosa importante.

– E perché io non posso partecipare alla stesura di queste fantomatiche regole? E poi… magari fossero messe per iscritto. Escono così, all’improvviso, quando meno te lo aspetti. Secondo me mamma e papà se le inventano di volta in volta solo per farmi impazzire. I grandi hanno troppo potere!

– Ecco questa cosa della limitazione dei poteri potrebbe esser interessante, ma non in questo caso.

– Come no in questo caso! Se continua così, io ai 18, vivo, nemmeno ci arrivo.

– Non fare il melodrammatico. Te lo abbiamo detto centinaia di volte. Fino a una certa età conta più l’esperienza dei genitori, sono loro che possono vedere oltre e darti buoni consigli.

– Appunto, dovrebbero essere consigli e non imposizioni.

– Imposizioni, non esageriamo. D’altronde loro a scuola non ci sono. Se fai il “dito medio” in classe nessuno ti vede. Tranne io con il drone, ovviamente (grassa risata).

– Però perché dovrei comportarmi in un modo in casa e in un altro fuori casa. È un delirio.

– Ma nemmeno puoi comportarti con i tuoi genitori come se fossero i tuoi amici di cortile.

– Ma che cortile, nonno! Nel cortile ci giocavi tu!

– Va bene, va bene, ma dovresti capire il senso. La famiglia e la scuola dovrebbero essere delle “istituzioni” con delle regole da rispettare. Regole buone per farvi crescere in maniera migliore, per prepararvi a essere dei buoni cittadini. Già la scuola si è sbracata abbastanza. Ai miei tempi ci si alzava quando entrava un adulto. Preside, insegnanti, bidelli dovevano esser rispettati.

– Ma nonno, se il bidello adesso non esiste nemmeno più e si chiama “collaboratore scolastico”.

– E lo spazzino che si chiama adesso “operatore ecologico”. Senti. la distinzione tra forma e sostanza la lasciamo per un’altra volta, altrimenti si diventa scemi. Torniamo “a noi” senza braccio alzato. La questione è che in una società non può regnare l’anarchia, perché l’anarchia, come il comunismo, è una utopia. Ora non mi far tirar fuori ricordi sbiaditi su Thomas More o su Pierre Joseph Proudhon o alcuni Illuministi. Per vivere in una società senza regole dovremmo raggiungere prima un punto estremo di evoluzione. Un tal punto che in parte cancellerebbe la natura stessa dell’uomo. Senza entrare nei dettagli, per poter vivere senza regole l’uomo, il cittadino, dovrebbe esser così evoluto da rispettare il prossimo “oltre natura”. Non ci dovrebbero essere invidie, egoismi, avarizie, ingordigie ecc. Non dovrebbe esistere la moneta. Tutti dovrebbero produrre, al massimo, secondo le proprie capacità – ma senza stressarsi – e tutti dovrebbero consumare, al minimo – ma senza soffrire –, secondo bisogni fisiologici temperati attraverso l’educazione o addirittura una forma di “auto educazione”.

Questo è forse possibile?

A volte mi viene il dubbio che alcuni filosofi non avessero figli o non avessero tempo per osservarli.

Tanto per capirci… se adesso ti portassi in una pasticceria e il proprietario ti dicesse che puoi mangiare, gratis, tutti i dolci che vuoi, tu ti rimpinzeresti fino a scoppiare. Non saresti capace di pensare ad altri ipotetici ragazzini che potrebbero entrare in quella stessa pasticceria dopo di te. Saresti capace di svuotare il bancone senza lasciare niente, lucidandolo anche con la lingua.

– Dai nonno, smettila, non esagerare.

– Ma andiamo indietro nel tempo. Mi ricordo che quando tentavo di toglierti il sonaglino dalle mani, a pochi mesi di vita, urlavi come un ossesso e ti ribellavi. Ecco, in quel momento ebbi una visione: la “proprietà privata” è innata fa parte dell’istinto. Quanto tempo ci abbiamo messo per insegnarti che è giusto condividere i propri giocattoli anche con gli altri bambini. Cinque anni? Non lo ricordo nemmeno più. Però la condivisione è un valore importantissimo in una società. Senza condivisione di beni, mezzi, idee, conoscenze non si va da nessuna parte. E anche la condivisione ha bisogno di regole.

Quindi, visto il livello di educazione attuale… o meglio dire visto il livello della “buona educazione”, si può forse vivere senza regole?

Oppure, meglio vivere in una società imperfetta con delle regole di convivenza civile o vivere in una società perfetta con “auto-regole” inumane? In cui tutti sanno trattenersi e non svuotare il vassoio di pasticcini gratis?

La risposta facile non è. Queste domande te le lascio come promemoria per l’università, se esisterà ancora (ridendo). E poi l’assenza di regole esterne richiederebbe la presenza di regole “naturali” interne, che al momento non fanno parte della nostra umanità.

– Nonno mi hai fatto venire il mal di testa. Mi hai convinto, in casa non farò più il “dito medio”. Però del tuo discorso non ho capito nulla lo stesso.

– (Sì che hai capito, dai! Pensa il nonno soddisfatto) Dai chavalín, mettimi su “Le elezioni” di Gaber e fammi riprendere il mio sigaro interrotto…

– Vorrai dire “Le erezioni” nonno, non fare il furbo con me (dice ridendo il ragazzino selezionando il brano per il nonno sul loro mega impianto multimediale).

© Testo e immagine – Stefano Angelo

:: editing a cura di edida.net ::

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Se volete… completate il racconto con le due opere di canzone-teatro di Gaber citate:


Le elezioni (Giorgio Gaber – 1976)

Destra – sinistra (Giorgio Gaber – 1994)

La ragazzina che dipinge un quadro

La ragazzina

:: di Stefano Angelo ::

La ragazzina ha circa 10 anni, credo. Alta un metro e cinquanta, magra. Ha un dente che sporge leggermente in fuori. L’incisivo sinistro, per esser precisi.
Porta occhiali da vista tondi, poco spessi. Ha una felpa arancione con cappuccio, con i cordoncini bianchi, asimmetrici, che pendono sul suo torace senza seno pronunciato, per il momento. Tra poco crescerà, insieme a lei. Sorrido.
Ha dei jeans, non troppo scuri, forse leggermente strappati sulla coscia destra. Scarpe bianche, sportive. Ha delle orribili scarpe bianche sportive, con lacci vistosi e suola da astronauta. Come se la sua altezza non le bastasse. Ha dei capelli neri corvini lunghi fino al sedere, ondulati.

Viene e mi guarda, in silenzio. Viene e mi guarda in silenzio, tutte le notti. Cosa vuole da me? Perché non mi lascia dormire? Ha uno sguardo serio, forse leggermente arrabbiato.

Si mette vicino alla porta, un po’ incurvata, con l’aria di chi se ne vuol andar via, però non se ne va. Sta lì ferma, aspetta. Aspetta qualcosa ma non so cosa. Se vuole andarsene, che se ne vada e mi lasci dormire in pace!

Niente, resta lì.

Mi rigiro nel letto, sono stanco. O sono pigro. O entrambe le cose.
Immagino una bicicletta. Perché mai quella ragazzina dovrebbe avere una bicicletta? Rossa, un po’ arrugginita. Cigolante. La immagino pedalare su quel ferro non troppo vecchio, mi vien voglia di lubrificarle la catena per non sentire quel fastidioso cigolio. Ma non faccio in tempo. Apro gli occhi un po’ stordito, tiro fuori il braccio dal letto e prendo il telefono: 6:04 del mattino. Sbuffo e punto lo sguardo verso il soffitto.

Odio le bici non curate. No, che dico, mi fanno solo un po’ di tristezza. Odio il padre della ragazzina. Non so ancora perché. Però non sopporto il fatto della cattiva manutenzione della bicicletta. E se invece la ragazzina fosse senza padre? Sospiro.

Oramai son sveglio. Rassegnato mi alzo. Vado verso il bagno. Passo in silenzio al lato della ragazzina che è sempre lì, con una mano sullo stipite della porta. Mi sembra di sfiorarla con un gomito. Gonfio i polmoni cercando di catturare il suo odore. Lo comparo con quello da cinghialotto di mio figlio, che di anni ne ha nove. Sorrido. Potrebbero diventare amici, forse. Increspo le labbra e la fronte, pensieroso, mentre chiudo la porta del bagno. Un po’ di intimità, perdiana. Almeno qui. Esco come un ninja dal bagno, non voglio svegliare nessuno. Ma la ragazzina è sempre presente. Mi scruta e io scruto lei.

Rassegnato mi siedo sul letto. Ascolto, con attenzione, il respiro di mio figlio che viene dall’altra stanza. La ragazzina lo nota e mi sorride. Allora sa anche sorridere, non è sempre arrabbiata.

Mi sistemo i cuscini dietro la schiena. Sbadiglio e apro il tablet. Le mie pupille hanno un sussulto. Riguardo velocemente la lista dei documenti salvati, ma non devo divagare. Apro un nuovo file. Mi metto a scrivere. Ora sono io che ho bisogno di quella ragazzina e inchiodo rapidamente la sua descrizione su uno sfondo scuro.

La ragazzina resta lì, in quelle parole. Non se ne andrà più via, almeno da me, dalle mie pagine.

I personaggi, per uno scrittore, sono come dei bambini, dei figli. Che ti guardano ansiosi di crescere. Si aspettano sempre qualcosa da te. Non solo una storia, ma delle cure, delle attenzioni, delle confidenze. Non vogliono trasformarsi in ferri vecchi, inanimati, arrugginiti. Quanti personaggi annegati nella pigrizia… Perché?

© Testo – Stefano Angelo

© Immagine di DCStudio su Freepik, rielaborata da Stefano Angelo

:: editing a cura di edida.net ::

Lo spartito

Lo spartito

:: di Stefano Angelo ::

È facile, ce la posso fare.
Devo solo eseguire i passaggi in sequenza come mi hanno insegnato. Due pannelli, un po’ di fili da tagliare e l’allarme sarà disattivato.
È facile, ce la posso fare.

Peccato che abbia il cuore in gola e le mani sudate. Peccato che se non ci riesco Nick mi taglierà la gola, senza particolari emozioni. A lui le mani non sudano mai.

Cazzo sto pensando, basta! È facile, ce la posso fare, incominciamo.

La mia respirazione è affannosa. La gola secca. Forzo facilmente e silenziosamente la serratura del primo pannello. Tre fili rossi, li taglio in sequenza. Tutto bene. Apro il secondo pannello, un vistoso filo nero e due azzurri. Ma come!? Nessuno mi aveva detto di un filo nero. Che ci fa quel maldito filo nero in mezzo a due scatole bianche.

Cazzo faccio. Lo taglio, non lo taglio?
Non capisco più niente. Il tempo passa e non ne ho. Ok lo taglio.

No, no no no.

Scatta l’allarme. Si accendono le luci del giardino della villa. Mi giro istintivamente verso le finestre della casa di fronte. Vedo, immagino, delle tende muoversi. Mi hanno visto, cazzo mi hanno visto.

Il cuore pulsa più forte di prima, sento esplodere le vene della mia testa. Rompo con furia le due scatole bianche, sradico il contenuto senza sapere cosa sia mentre con la coda dell’occhio vedo un terzo pannello, più piccolo, in basso sulla destra. Mi avvento su di lui senza pensare, inizio a tagliare e schiacciare pulsanti come in un delirio privo di senso.

All’improvviso l’allarme si spegne e le luci del giardino pure. Una manciata di secondi, lunghi un secolo, si concludono nell’oscurità. Ma il danno è fatto. Nessuno penserà a un errore del sistema. La polizia starà già arrivando. Qui muovono eserciti all’istante per qualsiasi cagata di mosca. E la cacca di mosca, questa volta, sono io.

Era il terzo pannello! Era il maldito terzo pannello.

Non penso con lucidità. Scavalco velocemente il muretto di cinta, salto sulla bici con cui sono venuto e inizio a pedalare come un matto. Ho lasciato nel giardino la mia piccola borsa per gli attrezzi da pseudo scassinatore, ma in un primo istante non me ne frega niente, devo solo allontanarmi. Dopo un paio di chilometri, rallento, cerco di ricordare il contenuto della borsa rovesciato e abbandonato freneticamente sul suolo, non dovrebbe esserci nulla che la polizia possa utilizzare per identificarmi. Un brivido mi assale, so già che il mio capo si incazzerà lo stesso, come una bestia. Penso ora alla mia gola e al coltello da macellaio di Nick.

Intanto pedalo. Scappo via con la mia bici nera. Più nera di me. Una bici un po’ piccola per la mia statura, per la mia età, ma non mi importa. Ha un adesivo di un magnifico dragone appiccicato sul tubo obliquo. La forca con gli ammortizzatori, i freni a tamburo e tre marce, di quelle che si cambiano con la leva montata sul tubo orizzontale del telaio. Sono orgoglioso della mia bicicletta, trovata in una discarica, quasi nuova. I bianchi buttano di tutto, anche cose non usate. I bianchi sono pazzi.

Mentre pedalo sul marciapiede di un viale alberato vedo una macchina della polizia bianca, come i due energumeni che ci sono dentro, che accende le luci e parte a tutta velocità, facendo una inversione a U, verso la villa da dove vengo io. Istintivamente svolto sulla destra e pedalo lungo una strada un po’ stretta che porta verso un viale parallelo.

Il panico mi assale di nuovo. E se mi hanno visto mentre scappavo con la bicicletta? Scendo e la lascio appoggiata su un albero prima di arrivare all’incrocio con il viale. Continuo a piedi. Bestemmio e mi maledico, ma devo continuare a piedi. Credo di non avere scelta. Sull’angolo vedo ammonticchiate delle cianfrusaglie, abbandonate al lato di un cassonetto, con in cima degli spartiti e dei dépliant di vecchi saggi di scuola di musica. Li prendo senza pensare.

Intanto mi giro e vedo che qualcuno sta portando via la mia bicicletta, è una ragazza, intravedo la sagoma. Impreco di nuovo. Vorrei correrle dietro per recuperare la mia bici ma un’altra macchina della polizia sta arrivando. Trattengo il fiato e continuo a camminare lungo il viale tenendo stretti sotto il braccio gli spartiti e i dépliant.

Dopo un centinaio di metri vedo una terza macchina della polizia. Ma questa volta è un posto di blocco. Tutto questo per un tentato furto in una casa di un bianco? Non è possibile. Devo continuare, anche se vorrei girarmi e scappare via.

Cazzo un ufficiale. Si riconoscono subito quelli. Alto, in civile, col naso aquilino e i capelli lisci, leggermente lunghi, un po’ fuori norma.
Quando mi vede mi fa un cenno con la mano per dirmi di avvicinarmi. Lo faccio a testa bassa, mentre mi si gela il sangue.
Vede gli spartiti e i foglietti dei saggi musicali stretti sotto il mio braccio. Mi chiede se faccio musica nella parrocchia di don Carlo. Gli dico di sì con la testa, sempre con lo sguardo verso il basso, senza proferire parola. L’ufficiale mi dice che gli piace la musica e che gli piace quel pazzo di don Carlo. Bisogna proprio esserlo per insegnare musica a dei negri in una città comandata dai bianchi. Mi dà un rettangolino di carta. C’è scritto su il grado, il suo nome e un telefono. Mi dice di chiamarlo se mi metto nei guai. Me lo dice come se fosse una cosa “normale” mettersi nei guai. Sono un negro in una zona di bianchi. Mi dà una pacca sulla spalla e mi dice di filare a casa.

Sette giorni dopo scoprirò che, quella notte, Nick e il resto della banda avevano svaligiato un’altra casa vicino a quella dove ero io. La villa “Corazón ligero”. Che nome idiota per una casa. Ma l’idiota, in quella notte, ero stato io. Mi avevano usato come esca. Come un verme da sacrificare. Ma l’avevo scampata. Mentre loro no…

Sette giorni passati, inutilmente, nella mia stanza. L’ottavo, presi uno dei dépliant dei saggi musicali, conservati senza apparente ragione insieme agli spartiti. L’indirizzo della parrocchia di don Carlo era dall’altra parte della città, in un quartiere in cui di solito non mi avventuravo mai. Uscii di casa e iniziai a camminare, verso la parrocchia, stringendo uno spartito tra le mani.

© Testo e foto – Stefano Angelo

:: Editing a cura di edida.net ::

La lite

La lite

:: di Stefano Angelo ::

Seduto al tavolo, con l’avambraccio destro disteso verso una coppa di vino, battevo nervosamente il dito indice sulla base del calice. Il suono di quel battito rimbombava amplificato nella mia testa, come se volesse proteggermi, distrarmi, isolarmi, senza riuscirci, da un rumore ancora più forte.

Il mio sguardo, come era il mio sguardo? Basso, spento, fisso sul mio avambraccio. E il mio corpo? Ricurvo. Ero ricurvo su me stesso e cingevo, con la mano sinistra, l’avambraccio. Continuavo a fissare quella parte anatomica del mio corpo, senza capirne bene il motivo. Stavo scomodo, in tensione, con il peso sbilanciato sul mio fianco destro, mentre non ascoltavo lei che mi incalzava con le sue richieste. Richieste da esaurimento nervoso.

Chi diavolo mi aveva messo in quella situazione e in quel locale, in quel momento? Non avevo alibi, ero stato io con le mie stesse gambe. Una promessa è una promessa. Che frase senza senso – forse. Intanto quel rumore assordante, della voce di lei, non mi dava pace. Avrei voluto alzarmi di scatto, buttarle il vino in faccia e scappare via, sbattendo una porta. Ma non ci riuscivo. Lei continuava a vomitare parole. Io, sempre più compresso, ritirai leggermente il braccio, sollevai il capo e cercai di posizionarmi, con fatica, con il busto eretto sulla sedia. Abbandonato il calice iniziai a muovere ansiosamente la gamba destra, “urtando” ripetutamente contro il bordo della tovaglia che pendeva sulle mie ginocchia. Era come un tam tam silenzioso, che echeggiava nella mia testa.

Lei sbatté, all’improvviso, il pugno sul tavolo e mi fissò, per pochi istanti, come se volesse urlarmi in faccia “Ma mi ascolti?”. Io, ridestato dal pugno, incrociai il suo sguardo, per un palpito, mentre lei riprendeva imperterrita con i suoi rimproveri e con la veemenza di sempre.

“Ma ti pare il modo di parlare a una persona?” pensai. Poi, come in catalessi, mi rifugiai in antichi ricordi. Antichi, proprio la parola esatta. Infinitamente lontano mi sembrava l’inizio della nostra relazione… solcata da innumerevoli crisi che l’avevano frammentata in ricordi sbiaditi, così sbiaditi da non poter più distinguere i momenti buoni da quelli meno buoni, violenti, orrendi come quello che stavo, stavamo, vivendo in quell’inutile pomeriggio. Mi sentivo piccolo e nervoso, bloccato e schiacciato in un angolo della vita di lei. Non riuscivo a pensare, nel mio calice vedevo solo caos e oppressione.

Adesso, invece di scappare, avrei voluto buttarmi su di lei, afferrare il suo esile collo con le dita e stringere, stringere, stringere. Con rabbia, in silenzio, in cerca di una liberazione. Vedevo i miei pollici affondare sulla sua trachea e un mezzo sorriso affiorò sul mio volto.

Di nuovo il rumore di un pugno sul tavolo mi ridestò, di nuovo i nostri sguardi si incrociarono per un misero momento mentre lei, continuando a parlare, sembrava che mi stesse anche urlando “Ma che diavolo hai da ridere!”.

Io avrei voluto abbaiarle in faccia: “Mi sento bene solo immaginandoti morta”. Ma continuai chiuso nel silenzio e il mio accenno di sorriso si spense in un soffio. Di nuovo mi estraniai dalla discussione. Discussione è parola grossa: monologo furioso… Rimuginavo.

La vedevo, la percepivo nella mia mente come un demonio liquido, capace di insinuarsi dentro di me, di invadere il mio corpo attaccando tutti i miei organi: i timpani, gli occhi, la lingua, il cuore, il diaframma, il ventre. Con la mente seguivo il liquido e cercavo, in uno scampolo di lucidità, di capire cosa mi stesse succedendo. I miei timpani erano avvolti da un frastuono insopportabile. I miei occhi, annebbiati e leggermente socchiusi, erano in uno stato di tensione che traspariva dalle rughe della fronte. La mia lingua era schiacciata sul palato e sugli incisivi, facendomi sentire dolore e immaginare il sapore del sangue. Il cuore batteva in maniera discontinua, cercai per un attimo di afferrare invano i miei battiti irregolari. Sentivo il diaframma come paralizzato, al punto di non poter quasi respirare. Percepivo i miei addominali come un tutt’uno con i miei glutei, contratti, come se una lama partisse dal mio ventre fino ad arrivare alla base della schiena. Lì si fermò.

Il liquido si dissolse. Una sensazione di freddo improvvisa in quel punto mi provocò un violento brivido che risalì come un fulmine fino a esplodere col fragore del tuono nel mio cervello che, destatosi da quello stato di torpore, mi portò a inclinare il torace in avanti, ruotare il braccio destro dietro di me, fino a scovare con la mano l’origine di quel gelo. Sfilai con uno scatto un revolver dalla cintura dei miei pantaloni.

Adesso silenzio. Adesso che alla fine del mio avambraccio destro non vi era più una coppa di vino ma una mano tremante che impugnava una pistola, lei aveva smesso di parlare. Finalmente. Ma quel silenzio improvviso non era consolatorio. Lei mi fissava. Io no, io guardavo il mio avambraccio, la mia mano e quella pistola. Di nuovo l’avambraccio, la mano, la pistola. Al ritmo del mio respiro affannoso, ripercorrevo con lo sguardo e con la testa quel tracciato. Stavo sudando. Lei era attonita, ma non fece in tempo a spaventarsi. Io smisi di tremare e di guardare. In un lampo, vissuto al rallentatore, portai con precisione la pistola alla mia tempia e feci fuoco. L’urlo di lei si confuse col boato dello sparo e io, inclinato su un fianco, mentre iniziavo a precipitare verso il pavimento, in un tempo sospeso tra la vita e la morte, riuscii a sorridere… con un sorriso diverso e mi godetti quella caduta istante per istante. Raggiunsi il suolo: senza più rumori, senza la voce di lei in sottofondo, senza pensieri. Libero e prigioniero (al tempo stesso) di una nuova dimensione, in cui tutto sarebbe ricominciato in maniera differente – o forse no. Ma questa volta, probabilmente, avevo vinto io.

© Testo – Stefano Angelo
:: Editing a cura di Francesca Frosali ::

Un ringraziamento particolare a Cristina T., Daniela A. e all’immancabile Salvina P.

Immagine di sfondo di Viki_B (Pixabay licence)

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Piatto di spaghetti con frutti di mare

Vita da crucco (2016)

:: di Stefano Angelo ::

Fine luglio
Il 30 luglio mi sono ritrovato a Frankfurt. Così, quasi all’improvviso. Qui, nella Crante Germania tutto sembra “più grande”. Gli scivoli per bambini sono più grandi. Il cartone del latte al cioccolato, che piace tanto a mio figlio, nella versione piccola per la merenda è di 500 ml, il doppio di quella italiana e spagnola. Manco avessero problemi di disidratazione per il calore. I succhini di frutta, non so. Ancora non li ho comprati. I biscotti sono tutti molto energetici, al burro o al cioccolato. Soprattutto al burro, ripensandoci: SOLO al burro.

Prima settimana di agosto
Nella Crante Germania di piccolo c’è solo il sale. Per trovare il sale grosso in un supermercato ho impiegato giorni, che dico, settimane, che dico, mesi… forse lo sto ancora cercando.

Nella Crante Germania ci si sveglia più presto, naturalmente. Almeno un’ora prima rispetto a Madrid. Non so se sia dovuto alle grandi finestre (grandi anche quelle) e all’assenza di serrande. La temperatura, per il momento, è ottima. A Madrid abbiamo lasciato 36, 38, 40 gradi. Qui, nella prima settimana, abbiamo avuto una media di 23 gradi. Si fanno le cose con più energia, dopo la grande colazione con i grandi biscotti.

Fine agosto
Per alcune cose, son tutti corretti. Forse anche troppo. O al momento li vedo io così essendo pervaso dai luoghi comuni che mi porto su, dal sud dell’Europa: nella Crante Germania funziona tutto… ma staremo a vedere.

A un semaforo, mi son fermato con la macchina a una certa distanza. Probabilmente per l’abitudine. A Madrid puoi incontrare ai semafori un’area riservata alle moto. Quindi le macchine hanno la linea di stop orizzontale un po’ arretrata. Lo so, sto cercando una misera giustificazione per il mio comportamento criminale. Fatto sta che mentre mi guardavo intorno per orientarmi, pur avendo il navigatore acceso e impostato, una grande nocca teutonica bussa non proprio delicatamente alla mia portiera. Preoccupato abbasso il finestrino. Un incendio? Una ruota esplosa? Le luci che non funzionano? Ho inavvertitamente arrotato un gatto? NO! Il grande tedesco mi fa “gentilmente” notare, in lingua inglese, che mi sono fermato a una distanza eccessiva dalla linea di stop. Il teutonico è sceso appositamente dalla sua rilucente auto germanica per segnalarmi l’infrazione! Un po’ perplesso, chiedo scusa e avanzo con la macchina posizionandomi esattamente nel punto indicatomi. Scoprirò solo più tardi che in alcuni semafori (dove puoi fare inversione a “U”) ci sono dei sensori che non fanno scattare il verde se non ci sono macchine. Maremma “germanica” impestata li camuffano proprio bene ’sti sensori, nella Crante Germania.

Settembre
La metropolitana non è male. Quella di Madrid mi piace di più. Però una cosa mi ha lasciato basito. Non ci sono le sbarre! Tu compri il grande biglietto e scendi le grandi scale. Arrivi al grande binario senza impedimenti, senza controlli. Forse ce ne saranno a bordo di tanto in tanto. Immagino. Comunque bello. Questa fiducia riposta mi fa sorridere, mentre penso alla piccola Italia e alla pequeña España.

Ottobre
Nella Crante Germania tutti continuano ad alzarsi presto, soprattutto di sabato. Perché chi dorme non piglia pesci. Ma se uno non volesse fare il pescatore? E poi dove lo trovano il mare a Frankfurt? Ecco perché gli aerei diretti in Italia e Spagna sono tutti pieni di canne da pesca! O di “cannati”, ma questa è un’altra storia.

Novembre
Nella Crante Germania i cinghiali sono permalosi, gli scoiattoli no.
Nella Crante Germania gli alberi crescono tutti ordinati, in fila e se qualcuno cresce storto: zac! lo tagliano subito.
Nei sentieri della Crante Germania puoi trovare delle grandi cacche, che dimostrano l’esistenza degli unicorni.

Dicembre
Nella Crante Germania quando vai in bicicletta i cani si fermano e ti salutano festosi. Perché nella Crante Germania i cani vanno a scuola e imparano tante cose.
Così scopro che il dito indice del possessore di cane germanico è uno e trino. Con un solo gesto il cane esegue tre comandi: si siede a lato della ciclabile; lascia passare le biciclette; non dice nemmeno “muh”, altrimenti sarebbe una mucca.
Ma soprattutto, nella Crante Germania i cani non fanno mai i loro bisognini per la strada. Mistero.

Gennaio
I miei rapporti con i semafori continuano a esser difficili. Perché nella Crante Germania i semafori ti mettono ansia, come in Formula Uno. Rosso, giallo, verde VIA! Se non lo fai ti ritrovi un Porsche nel portabagagli.

Febbraio
Nella Crante Germania niente banana split alla Nutella d’inverno. Perché nella Crante Germania la Nutella solidifica anche fuori dal frigo. Scatto una foto al coltello nel barattolo, per una prossima versione de “La spada nella roccia”, guardando mio figlio che implorante mi chiede di sciogliergli la crema del desiderio al vapore… Nella Crante Germania faccio il mammo a tempo pieno. Nella Crante Germania ho imparato a lavare i vetri con l’ammorbidente, a pulire il cestello della lavatrice con l’aceto, a usare la “vaporella” per togliere le incrostazioni di calcare dai rubinetti di bagno e cucina.

Marzo
Nella Crante Germania piove a dirotto, le mie coltivazioni di muschi e licheni vanno a gonfie vele. Se continua così potrei diventare esportatore di materiali “edili” per i presepi di tutta Napoli.

Aprile
Nella Crante Germania finalmente posso uscire in bici, lasciando a casa la borsa d’acqua calda, la termo coperta e i mutandoni di lana, triplo strato.

Maggio
Nella Crante Germania vi è una grande fiducia nel prossimo o nelle poste o in tutti e due. Di sicuro ci si fida poco dei servizi bancari, oppure è solo questione di braccino corto. Se vai dal medico, ad esempio, dopo la visita NON paghi! Ti mandano la fattura a casa, con posta ordinaria, e poi paghi tranquillamente tramite bonifico bancario. Il POS, questo sconosciuto.
I piccoli negozianti non hanno nemmeno POS internazionali, accettano solo carte germaniche, ci mancherebbe.

Giugno
Nella Crante Germania la revisione auto è indimenticabile. Nella targa c’è un bollino colorato che ti indica i mesi e l’anno in cui devi farla. Dopo la revisione ti cambiano il bollino, con il nuovo anno e il nuovo colore. Passo tutto il tempo a guardare bollini colorati. Il mondo germanico è pieno di bollini colorati. È meraviglioso.

Luglio
Finalmente preparo gli scatoloni, questo anno teutonico è alla fine e ci prepariamo, finalmente, a rientrare a Madrid. “Europa sì, Europa no, Europa gnamme, se famo du’ spaghi?” (citando, più o meno, Elio e le Storie Tese)

© Testo – Stefano Angelo

Pixabay License – Foto di eommina da Pixabay


piccola nota: scritto estemporaneo sulla mia prima “esperienza germanica” di soli undici lunghissimi mesi. Sono poi tornato nella ridente Frankfurt am Main nell’agosto del 2018… ma questa storia non avrà un ulteriore seguito (almeno spero :-))

piccola nota due: ho completato questo scritto quattro anni dopo essermi riconciliato con i semafori…

Ti è piaciuto questo racconto? Non perderti allora le prossime uscite! Seguici!

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