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Passione per la scrittura
ESPLORA
Primo piano di un gatto

Il sergente

:: di Lyes ::

Ero andata via dall’ufficio senza salutare. Non lo facevo mai, ma in quei giorni ero stanca di tutto e di tutti. Questo dover oltrepassare i controlli e una sbarra all’entrata e all’uscita dal lavoro, mi rendeva intollerante, antipatica e claustrofobica. Particolarmente. Perché già lo ero di mio…

Ma non da quando c’era lui. Avevo cominciato a notarlo qualche settimana prima. Cambiavano sempre e da poco era arrivato questo marcantonio dagli occhi blu che guardava sempre fisso davanti a sé.

Nemmeno trentenne, io con qualche anno in più, aveva gli occhi del mare d’inverno, carnagione scura e lineamenti marcati. Sembrava uscito da una vecchia pubblicità della Coca-Cola.

Però non sembrava affatto essere il bulletto a cui si atteggiava. Forse perché mi ricordava, a tratti, un caro amico d’infanzia, con cui avevo passato l’adolescenza e a cui avevo regalato la mia verginità. Avendo perso il padre da bambino era sempre incazzato col mondo. Faceva il bulletto ma io un po’ lo compativo. Così, non dando poi tutta quest’importanza all’evento, decisi che la nostra era comunque una forma d’amore e mi lasciai sedurre con affetto, anche se nessuno dei due era veramente innamorato. Crescevamo insieme e basta.  

Il marcantonio mi controllava i documenti e non mi degnava di uno sguardo. Nemmeno per vedere se la foto corrispondeva. Mi faceva aprire l’auto, ma niente. Neanche al mio stringato, ma almeno civile, saluto era seguita mai alcuna occhiata, un sorriso, nulla. Forse era solo questo a renderlo interessante ai miei occhi. Quasi rallentavo per farmi fermare quando c’era lui. Ma ero una donna e non mi fermavano spesso.

Non oggi però. Oggi controllavano tutti.

Ogni tanto accadeva che ricevessero ordini dall’alto che bisognava ispezionare tutti.

Ed eravamo in fila. Pazienti gli uomini. Le poche donne, meno. C’era sempre qualche scusa: figli da andare a prendere, correre a fare la spesa, cucinare, riunioni a cui partecipare. Insomma sembrava che gli uomini, in confronto a noi, non avessero mai niente da fare.

– Gentilmente mi apre dietro?
– Certo.

Che voce stridula mi era uscita. Mentre sprofondavo dalla vergogna aprii il portabagagli e subito mi caddero a terra le mille cianfrusaglie stipate dentro la macchina che usavo ormai come una seconda casa.

A entrambi venne automatico chinarci per prenderle e così, grazie a questo gesto quasi involontario, ci toccammo per la prima volta dandoci una severa testata l’un l’altro. Lui non si scalfì nemmeno, io invece persi l’equilibrio e mi ribaltai per terra.
Mi affrettai a scusarmi. Non so perché. Forse perché la divisa mi incuteva un po’ di timore. Ma avrebbe potuto farlo anche lui.

 Lo chiamarono.

– Sergente. Venga.

Niente nome.

Mi fecero spostare avanti per far passare gli altri. Lui tornò indietro e guidò la mia auto fino a superare il controllo e parcheggiò accanto a me che nel frattempo ero stata messa a sedere su una sedia con del ghiaccio sulla testa e sul ginocchio gocciolante sangue, tra le calze smagliate. L’accaduto ci aveva regalato quell’inaspettata intimità.

– Come si chiama?

Mi chiese porgendomi le chiavi della mia auto. Ma lo sapeva già il mio nome.

– Matilde. E lei?

Nessuna risposta.

S’inginocchiò di fronte a me e controllò le mie ferite. Mi accarezzò piano la fronte e finalmente dopo settimane che mendicavo il suo sguardo, i suoi occhi fissarono i miei.

– Perché non se ne va via?

Perché non me ne andavo via? Già, pareva facile. Prendere e lasciare tutto. Senza un soldo. Senza un lavoro. Senza alcun amico lontano che ti potesse ospitare.
Eh però se restavi e succedeva che morivi in uno dei mille atroci modi possibili, non era certo meglio. No. Decisamente non lo era.

– … E dove dovrei andare? … Arriverà anche qui?
– Sì.

Era stato un vero e proprio avvertimento. Un dirmi qualcosa che forse non avrebbe potuto. Ma io lo stesso non sapevo dove mai sarei potuta andare.

I giorni passarono e fummo immersi in questa coltre di ansia e incertezza.
Suonavano le sirene. Correvamo negli scantinati.
Ogni tanto arrivavano notizie da dove era la guerra. Quella vera. Quella dove qualcuno che conosci è scappato o muore o non ne sai più nulla. Eravamo un po’ tutti sgomenti. Sotto choc.

Mai avremmo potuto immaginare che una guerra, oggi, avrebbe preso posto nelle nostre vite. La guerra apparteneva al passato. Ai libri di storia o a un film, al massimo. E invece, nonostante sembrasse tutto così incredibile e assurdo, eravamo lì, e io avevo paura di tutto. Anche per il mio gatto ammaccato che si aggirava sempre più circospetto per casa.

Da qualche giorno venivo fermata più spesso. Non solo io.

La situazione era peggiorata. Mancava spesso l’acqua e riuscivo a lavarmi solo a pezzi. Mi sentivo sempre sporca e in ansia. I rumori mi atterrivano. L’umore era nero.

– Mi deve dare i suoi documenti.
– Ma sono sempre quelli i miei documenti. Passo da qui tutti i santi giorni, quattro volte al giorno. Non è che scado.

Nonostante tutto risi di me stessa e della mia acidità.

Il sergente alzò un sopracciglio e per la seconda volta in questa assurda storia, mi guardò dritta negli occhi.

– Non c’eri ieri.

Il suo darmi del tu mi sbalordì.

– No.

Riuscii a biascicare.

– Nemmeno giovedì.
– No.

Il cuore cominciò a battere velocemente e dopo tanto tempo ebbi quasi un attimo di pura euforica allegria. Non ero più abituata a sentirmi leggera ed ero come ubriaca.

– Stai meglio?
– Sì.

Non rispondevo che a monosillabi ma volevo gridare. Mi trattenni.

E poi arrivò la mazzata. Inaspettata. Brutalmente inaspettata.

– Tra 15 giorni mi trasferiscono.

Mi sentii mancare. Ecco che questa oasi di vuoto, di estraneità all’orrore, me l’avrebbero tolta. Questo miracoloso rituale, che mi permetteva di sopravvivere ogni giorno, sarebbe finito.

– Dove?

Domanda inutile e stupida. Mi fece cenno di andare. E io mi sentii salire lacrime amare e piene di rabbia.

Arrivai a casa con gli occhi arrossati e pieni di un mare salato. Salii in fretta e, visto che scorreva un leggero rigagnolo d’acqua, m’infilai sotto la doccia, nella speranza che durasse quantomeno per lavare via questa insensata frustrazione.

Il citofono suonò.

– Posso salire?

Riconobbi la voce e aprii senza dire una parola. Senza nemmeno indicare il piano. Se sa dove sto, sa pure a che piano.

Bussò e io aprii la porta, con i capelli bagnati e l’accappatoio addosso.

Arrivò anche il micio che lo fissò torvo e sbilenco.

Con mia grande meraviglia lo guardò e lo salutò sorridendo. Sorriso che era la prima volta che vedevo. I denti bianchi, erano perfettamente allineati.

– Ciao gatto.

Dal mugolio che ne seguì, compresi che anche il mio gatto si era preso, immediata, una cotta per lui.

Dal gatto passò a guardare me. Mi guardò intensamente e a lungo. Per tutte quelle volte in cui prima non l’aveva fatto.

– Posso?

Mi chiese in un sussurro e io feci solo cenno di sì. Mi aprì l’accappatoio piano, mi afferrò i fianchi e cominciò a baciarmi lungo il collo, dietro l’orecchio.

Mi accarezzò ogni centimetro di pelle. Avevamo bisogno del calore l’uno dell’altra e non smettemmo un secondo di guardarci e baciarci e sorriderci.  Disperati.

Mi svegliai con lui addosso.

– Non so nemmeno il tuo nome.

Si mise a ridere…

– Ok. Ricominciamo da capo. Ci vediamo a pranzo. Ci incontriamo ufficialmente e ci presentiamo.
– Ok.

Sembrava un ragazzo adesso. E lo era. E se ne andò baciandomi sulla fronte.

Aspettai l’ora convenuta con un’ombra nel cuore.

Avevo paura che fosse stato solo un modo facile per andarsene. E invece eccolo lì, che ancora mi sorrideva arrivando da lontano. Con gli occhi fissi su di me. 

All’improvviso non vidi né sentii più nulla. Balzai violentemente all’indietro dal mio tavolino contro il muro. I vetri si frantumarono e la polvere fu ovunque. Un tremendo boato mi rimbombava nella testa e per qualche minuto non seppi più dov’ero e cosa stavo facendo.

Mi scossero. Brandelli di carne e tutto il rosso che avevo addosso pensarono fosse il mio. Ma non era il mio sangue.

Avevo (in loop) nella testa, lui che mi guardava per la prima volta. Lui che mi accarezzava il viso, lui che mentre facevamo l’amore mi sussurrava quanto mi aveva desiderato. Lui che mi sorrideva da lontano. Lui che saltava in aria.

Qualcuno venne a chiedermi se sapessi il suo nome.

Io avevo ancora il suo odore addosso. Ma il suo nome no, non lo sapevo. E non lo avrei saputo mai.

© Testo – Lyes


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