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San Valentino

San Valentino

:: di Lyes ::

Arrivai alla “Casa della pietà misericordiosa” che era buio. Ero stata tutto il giorno nel dubbio se andare oppure no. Ma poi al diavolo. Quella donna aveva significato qualcosa per me da ragazzina e non l’avevo dimenticata.

Chiusi gli occhi, per trattenere l’emozione e mi vidi ancora lì, ancora adesso. Riuscivo quasi a percepire gli odori di quell’estate rovente. Giocavamo mezzi nudi per strada. Gli adulti seduti su sedie disposte sull’uscio aperto di casa, per la leggera corrente che si generava e che dava un refrigerio apparente. Noi, a rincorrerci con secchi d’acqua, maschi contro femmine in questa danza di inizio adolescenza dove se ti tocchi per sbaglio o se qualcuno ti prende in braccio, per gioco, è ancora concesso, anche se già vuol dire qualcosa di più. Si affacciavano in noi le prime pulsioni sessuali e nessuno voleva stare in disparte. Vedevo i maschi guardare sgomenti i seni ormai sbocciati delle mie amiche e volevo morire, sprofondare, essere risucchiata dalla polverosa terra riarsa. Io, che invece avevo ancora due minuscoli bottoncini sotto la canottiera bianca, li guardavo umiliata.

Nina, veni cà (vieni qui).

Andai obbediente dalla nonna di Clara.

Nu misi nci dugnu, e ti zumperanno tutti i supa. (Nel tempo di un mese, ti salteranno tutti addosso)

Mi sorrise, col suo sorriso di cartapesta e io feci altrettanto.

Entrai in una stanza male illuminata. Con candelieri finti alle pareti. Con scritte stampate sui muri: “Pentitevi prima che sia troppo tardi”, “la verginità è una virtù che spalanca le porte del paradiso” e altre amenità e mi chiesi che c’entrava la nonna di Clara con questo posto orrendo.

Non la riconobbi. Pensai inorridita che la morte ti trasfigura i lineamenti e che un giorno sarebbe toccato anche a me stare lì, morta e irriconoscibile.

Una, che credetti una parente, mi si avvicinò e mi disse in maniera grave e solenne:

– Era una gran persona, non è vero?
– La migliore. Mi ha dato fiducia quando non l’avevo.

La signora s’impensierì. Gli angoli della bocca invece di salire, si catapultarono verso il basso e percepii una sottile tensione. Non sapevo bene come continuare. Forse era troppo misera come commemorazione. Continuai mettendoci più enfasi.

– MI ha detto le parole giuste quando serviva. MI ha fatto sentire speciale.

L’effetto fu anche peggiore del precedente. Con la faccia stupita, a punto interrogativo, mi chiese:

– Perdonami cara, ma quando te le avrebbe dette queste cose?
– Quando ero una ragazzina.
– Una ragazzina? Cioè? – lasciando trapelare lo smarrimento –

Non so perché cominciai a sudare freddo. Cos’erano tutte quelle domande. Cosa stavo dicendo di sbagliato?

– Sì, insomma, mi ha fatto sentire bella come nessuno mai prima.

All’improvviso un pianto dirotto e disperato la scosse. Come fosse una ragazzina lei, adesso.
Singhiozzava violentemente e io ero senza parole. Non avevo idea di chi fosse quella signora.
Un istinto primordiale di autoconservazione mi suggerì, non so come, di aggrapparmi a qualcosa di reale e mi misi a leggere, sul manifesto ai piedi della cassa, il nome della morta.

Del morto!
Ottavio Romano. Bel nome. Ma non il “mio” nome e non “la mia morta”.
Avvampai.

Uscii farfugliando inutili scuse, cercando di chiarire la mia posizione ormai compromessa e compromessa anche quella del morto, che poveretto non poteva nemmeno difendersi, il cui ricordo sarebbe stato per sempre offuscato per colpa mia che nel frattempo avevo cominciato a ridere in maniera sconveniente e inopportuna. La vedova mi guardava andare via, sconcertata.

Scoprii così che la “Casa della pietà misericordiosa” aveva tante casette e che dava riposo a più “ospiti” contemporaneamente.
Ma mettete indicazioni più chiare se è così che funziona!

Entrai finalmente nella casa giusta, senza finti candelieri alle pareti e soprattutto senza scritte da Medioevo sui muri, e mi trovai di fronte quattro generazioni di donne.

La morta, nonna della mia amica. La mia amica, sua mamma e sua figlia.

Nonna e nipote erano sedute accanto. Stessa corporatura. Stessi occhi neri come pece e stesse labbra carnose. La nipote però sovrastava la nonna di almeno quaranta centimetri e l’effetto era un po’ matrioska. L’anziana aveva i capelli neri corvini raccolti a treccia sulla nuca. La giovane li portava rosso fuoco, tagliati all’altezza delle spalle, se la guardavi da destra. Se la guardavi da sinistra, completamente rasati. Vestita di nero d’ordinanza la nonna. Mentre la nipote indossava una felpa sempre nera ma con una scritta al centro bianca: FUCK YOU! Tutto maiuscolo. Jeans, manco a dirsi, strappati. Le unghie verde fluo.

Erano uno spettacolo. Le guardavo ipnotizzata.

MI raccolsi un attimo in silenzio, pensando a quello che avevo da dire alla morta, per salutarla, ma avevo già detto tutto a Ottavio e quindi non avevo altro da aggiungere.

Io e Clara volevamo invece dirci tante cose. Sembrava non fosse né il luogo né il momento adatto ma fu lei che si avvicinò per prima e mi abbracciò. Cominciammo a parlare a bassa voce, quasi sussurrando, di quello che ci era successo in quegli anni, come se non fosse passato tutto quel tempo. Come fosse stato solo ieri.

– Mio marito voleva prenderti a schiaffi, appena ti ha vista al nostro matrimonio con quel vestito da “poco di buono”.

Erano passati quindici lunghi anni. Si erano sposati il 14 febbraio. Di San Valentino. Avevano voluto celebrare il compleanno di Clara e il matrimonio insieme. E l’occasione, il colore e l’abito mi erano sembrati quelli giusti.

Questa era la prima volta che parlavamo da allora.

Ed era vero. Mi vergognavo da morire adesso. Non mi capacitavo di come avessi potuto osare tanto. Io che, anche a sedici anni, pur potendomelo permettere, non avevo mai esagerato nel mettermi in mostra.

Al loro matrimonio ero invece stata ai limiti della decenza. Avevo quel maledetto vestito rosso fuoco, e sì aveva ragione il marito. Mi guardavano tutti. Ma io mi sentivo pura e innocente e dalla parte della ragione. Anche se devo confessare, ero single e avevo una gran voglia di divertirmi.

Lo feci. E il marito, fresco di pacco, della mia amica si incazzò ancor di più appena scoprì che mi ero portata a letto un “di lei lontano parente”.

Non so, forse il fatto che fossi l’amica intima della sua, ipoteticamente ancora casta, sposa lo indispose.  Ma non me ne curai allora e men che meno oggi. Davanti alla vecchina morta mi dissi che era stata una serata memorabile. Più che soddisfacente. E che la nonna di Clara avrebbe approvato. Anche se poi si scoprì che il “di lei lontano parente” era pure fidanzato, che “scemunito”, ma vabbè. Cose che capitano.

Ricordammo insieme la faccia stralunata di sua suocera quando mi chiese ingenua: quello è il tuo ragazzo, cara?

E io, che non vedevo l’ora nella vita di poter usare una frase tratta da uno dei miei film preferiti, risposi candidamente: no no, lo uso solo per il sesso!

– Ah bene!

… scappò detto alla suocera prima di capire cosa avevo effettivamente risposto, per poi improvvisare un mancamento da vera bigotta. Miracolosamente si riprese in pochi istanti e come posseduta da satana cominciò a insultarmi e io, attonita, mi chiesi perché a questa sconosciuta o al mondo intero fregasse tanto con chi andassi a letto io.

Cominciammo a ridere e Clara mi tirò per un braccio e mi portò fuori dove, camuffando le risa con un pianto disperato, chiunque la incontrasse si meravigliava e riteneva forse un po’ esagerata e fuori luogo questa “disperazione” per la vecchina. Che sì, era la nonna, ma già ultracentenaria, morta nel sonno, nel suo letto, con un bel sorriso stampato in faccia che le durava tuttora.

Clara, soffocando le risate, si beveva le lacrime e accettava le condoglianze con una sacralità e una dignitosa compostezza che non le riconobbi nemmeno quando ci diedero la prima comunione, cosa a cui aveva tenuto tantissimo.

Ora eravamo qui, l’una di fronte all’altra e io ero stata per tanto tempo arrabbiata con lei. Tremendamente arrabbiata. Perché aveva lasciato che il marito s’intromettesse tra di noi e mi aveva messo da parte. Perché ogni compleanno passato senza il suo “auguri piccolo soffio del mio cuore” era stato meno bello. Perché pensavo a tutte le volte che l’avrei voluta accanto, per ridere, piangere, rimproverarmi e fare le sceme.

Eravamo un po’ tristi per davvero adesso. E mi venne in mente che magari anche lei stava pensando le mie stesse cose. Che forse anch’io avrei potuto provarci di più. Fare meno la vittima, “quella che se la prende”. Avrei potuto, dovuto, alzare il telefono e chiamarla. Nonostante il marito.

Le accarezzai la guancia e le diedi un bacio. Allora mi resi conto che il silenzio certe volte, non bastava, anche se ci si era capite. Ero sempre stata quella che dosava troppo le parole. Ma bisognava anche dirle, a chi se le meritava, quelle giuste.

– Mi dispiace tanto, Clara.
– Anche a me.
– Buon compleanno, piccolo soffio del mio cuore.
– Grazie – mi rispose sorridendo.

Era oggi il 14 febbraio, San Valentino.

Mi alzai per andare.

– Nina?
– Dimmi.
– Mi chiami?
– Ti chiamo.

© Testo – Lyes

Immagine di Claudette Gallant da Pixabay (con relativa licenza)

Donna con il fucile - foto di Martin Kollar (modificata)

Il vuoto nella canna

:: di Stefano Angelo ::

Fish and chips

Mi ritrovo seduta al tavolo di un fish and chips, tenendo tra le mani una tazza di tè irlandese per cercare di incontrare un po’ di calore.

Dall’altro lato del tavolo non c’è nessuno. Solo un oggetto inconsueto appoggiato in bella vista, come fosse l’arnese più banale del mondo. Invece no. Si tratta di un fucile. Forse un fucile da caccia, di quelli a otturatore girevole. Così mi hanno detto.

Ho una sensazione di disagio, di nausea e una rabbia celata da uno sguardo perso nel vuoto.

Dopo un po’, fisso il fucile. Lo avevo trovato sulla soglia di casa qualche giorno prima. Lasciato da chi? Da mio fratello…

Intanto rimugino sulla cosa che mi aveva irritata di più: non era quell’arma, apparentemente più ossidata di me, ma il biglietto che l’accompagnava e che non ho ancora avuto il coraggio di strappare.

Il calore della tazza inizia finalmente a sortire qualche effetto mentre un’accozzaglia di pensieri intasano il mio cervello. Io non vorrei uccidere lui, mio fratello, con quel fucile ossidato e carico del mio dolore. Ma suo figlio, mio nipote. Un ragazzo (fastidiosamente) perfetto, (apparentemente) adorabile, con tanta gioia di vivere; dicono. Non so se lo amo, almeno un po’. Ma so che odio mio fratello. Alla follia. Il nipote sarà la mia lama, la mia vendetta. Che deliri…
Intanto medito sul dopo. Sulla sofferenza inflitta a mio fratello. Sulle sue lacrime. Sul suo sudore. Sul vuoto. Suo. Mio. Di entrambi.
In alcuni momenti immagino lo sparo, l’odore della polvere, il rumore assordante. Un fischio nella testa mi disturba. Resto attonita. Penso alla vita interrotta. Ma è un lampo. Poi ripenso a mio fratello. A quanto lo odio, a come lo odio e a quanto soffrirà con me.

Penso alla mia vita bruciata. Penso a mio padre, che se ne è andato molto prima, sfuggendo alla mia croce.

Penso alla mia casa. A come era prima che si ammalasse mamma. A come era durante la malattia, con un letto in cui era apparsa una crocifissa, con le scatole di medicine sparse ovunque. Penso al disordine, agli odori. Penso alla routine a cui ero costretta, ai tempi scanditi da esigenze non mie, alle inutili visite dei dottori.

Penso a me, al figlio che avrei potuto avere… mi si annebbia la vista. Resto catatonica, per diversi istanti.

Una voce un po’ stridula mi ridesta dal mio torpore. È la cameriera che mi chiede se voglio qualcosa da mangiare. Un cheesecake, rispondo meccanicamente. In fondo non ho nemmeno fame. In fondo ho le budella attorcigliate. Nell’attesa piombo di nuovo nel mio passato…

* * *

Passeggiate

Le mie giornate erano tutte uguali, da sette anni oramai. La casa era sempre più vuota e sporca, dopo la morte di mio padre. Il giardino era uno schifo. Le erbacce invadevano in maniera arrogante i miei spazi. Tutti i colori intorno a me erano sbiaditi. Anche io ero sbiadita. I miei occhi guardavano in maniera sfuggente la mia immagine nello specchio. Non ero più io? No, non ero più io.

A trentotto anni avevo dovuto lasciare il mio lavoro per occuparmi “meglio” di mia madre. Il mio lavoro di maestra mi piaceva, forse. Già non lo ricordo più. Ma almeno, al mattino, prima di uscire di casa mi lavavo, mi vestivo in maniera pensata. Ero decorosa e rispettata. 
Pochi alunni in quella cittadina persa nella polvere, avevano un futuro incerto ma questa consapevolezza non mi demotivava. Alcuni bambini, con le loro famiglie, se ne erano già andati, la vita nei campi era dura e la fabbrica di armi della città vicina era una promessa.

I negozi lì luccicavano. Le vetrine erano colme… Ci andavo spesso e mi piaceva vedere il mio riflesso per niente sbiadito in quelle vetrine. Mi piaceva proprio andare in quella città. Era una promessa anche per me.
Lì viveva un avvocato di origine russa. Si era trasferito nella Città delle armi (così la chiamavo) dopo la Grande Guerra. Si chiamava Nikolay Melnikov. Melnikov significa mugnaio, ma ero l’unica a saperlo in quella città. Era serio, imponente. La sua mole un po’ intimidiva. Era abile, molto abile. Aveva fatto amicizia con il sindaco e aveva già molti clienti. Nella Città delle armi si scatenavano diverse dispute. In altri tempi non ci sarebbe stato bisogno di un avvocato, pensavo. Oggi sì.
Con Nikolay passeggiavamo spesso per le strade della Città delle armi, perfettamente asfaltate, perfettamente illuminate, soprattutto nei giorni di festa. Passeggiavamo sfiorandoci spesso, senza mai toccarci in maniera evidente. Era prematuro. Eravamo due persone rispettate. Con un ruolo, un obiettivo, un senso. Ma i dorsi delle nostre mani si cercavano e si incontravano. Complici. E bastava questo per farmi stare bene.

* * *

Il giardino

Grande Guerra a volte ripetevo nella mia testa. Cosa avrà mai di grande una guerra. Io ero mite, a quel tempo. Coltivavo il mio giardino con precisione maniacale. Nessun cespuglio invadeva l’area del vicino. Io non invadevo l’area di nessuno. Ero riservata. Il mio sguardo non era ancora schivo. Scrutavo in maniera discreta le cose e le persone. Pensavo di capirle ma preferivo gli animali. Avrei voluto un laghetto con dei pesci. Non sapevo ancora che tipo di pesci. Piccoli, silenziosi, non invadenti. Ne avevo parlato timidamente con mio padre. Ancora mi metteva soggezione. Parlava poco, meno degli altri reduci. Spesso era assente. Non avrò mai lo sguardo come il suo, pensavo.

* * *

La prigione

Le mie giornate trascorrevano serene. La mia routine lavorativa mi piaceva.
Ma ultimamente mi piacevano di più le passeggiate nella Città delle armi. Lui non veniva mai qui. A lui non piacevano le strade polverose. A lui piacevano le camicie ben stirate, le cravatte e aveva una passione smodata per le bombette. Adorava quei cappelli… e io adoravo lui. Ma poi, tutto cambiò. Quando mamma si ammalò il mio tempo libero si sfumò. I primi tempi della malattia passavo i pomeriggi nei centri medici e nelle farmacie. I fine settimana, invece di andare a trovare Nikolay, provavo a scrivergli delle lettere. Non sempre ci riuscivo. Lui i primi tempi mi rispondeva, poi meno, poi in maniera distratta. Mio fratello, sfuggente, quasi mai mi concedeva un fine settimana di riposo. Lui aveva la sua famiglia, il suo lavoro.

In uno di questi fine settimana “liberi” riuscii ad andare da Nikolay. Notai subito, dal suo sguardo, che qualcosa era cambiato. Era rigido, forse per nascondere il suo imbarazzo. Provai ad avvicinarmi a lui e percepii un odore estraneo, un profumo di donna appiccicato sulla sua camicia. Ricordo un brivido e la sensazione di un pugno nello stomaco. Ancora, però, conservavo il mio orgoglio. Tornai a casa senza batter ciglio. Ancora il mondo non mi era caduto addosso e mantenevo viva la speranza di una riscossa. Mi sbagliavo.

La malattia di mia madre peggiorò. Nel giro di poco non fu più capace di alzarsi dal suo letto. Mio fratello, con un sorrisetto difficilmente interpretabile, appoggiò subito l’idea di mio padre: dovevo lasciare il mio lavoro. Ero l’unica che poteva occuparsi di mamma. Io, solo io. Il mio senso del dovere, verso la mia famiglia, mi impedì di vedere le conseguenze e diedi le dimissioni. L’adrenalina si alternava alla frustrazione. Poi i sensi di colpa, anche verso i miei pochi alunni, ma prima viene la famiglia, mi dicevo.

* * *

Il fantasma

Dopo alcuni mesi mio padre morì, in maniera silenziosa, senza preavviso, durante una notte un po’ afosa. Gli ultimi anni con lui non erano stati di certo piacevoli ma nemmeno spiacevoli. Semplicemente era assente. Si affacciava di tanto in tanto da uno stipite della porta della stanza in cui viveva mia madre, senza mai entrare, senza mai parlare. La guardava per qualche istante per poi sparire nel buio del corridoio. Non lo notavi arrivare e non lo notavi andare via. Percepivo a volte il suo sguardo ma ormai non mi giravo più verso di lui, per invitarlo a entrare. Vagava per casa. Ultimamente non usciva nemmeno più in giardino. A volte gli portavo da mangiare in stanza, quando non si presentava spontaneamente a tavola all’ora abituale. Quasi lo preferivo. Stare a tavola con un fantasma, che nemmeno ti guarda, mi metteva a disagio. Stringevo forte le posate, ma non avevo il coraggio di rivolgergli la parola. Ero stufa di non ricevere risposte. Da un lato lo compiangevo per i traumi subiti in guerra, dall’altro lo odiavo per la sua rinuncia alla vita. Possibile che nella nostra casa non avesse trovato nessun conforto? Nessun motivo per reagire? Per riprendere a vivere? Almeno un po’.
Così dopo la sua morte non dico che mi sentissi sollevata, ma nemmeno affranta.
E poi c’era ancora mia madre. Dovevo ancora pensare a mia madre.

* * *

La morte

La morte di mia madre arrivò cinque anni dopo quella di mio padre. Una morte diversa. Tra spasmi e lamenti. Bava e rantoli. Alla fine la sua faccia rimase quasi pietrificata in una smorfia di dolore. Non ebbi, alla prima, il coraggio di pulire e ricomporre il suo viso. Non volevo più toccarla. Dopo che per anni mi ero occupata di lei, di tutto il suo corpo. La parte più profonda di me non ne poteva più, malgrado l’amore.
Era finita, ma ero finita anche io. Libera? Di fare cosa? Mi sentivo come un recluso che dopo trent’anni viene sbattuto fuori dalla prigione. Il trauma di uscire, da una tua prigione, a volte è più duro di quello che hai provato al momento di entrare… Con un dolore si può imparare a convivere, ti puoi convincere della sua “necessarietà”. Ma quando te lo tolgono all’improvviso? Che fai? Hai le forze per reagire? Per tornare a vivere? In quel momento vedevo, capivo, mio padre… ma la cosa per nulla mi allietava.

* * *

Il testamento

Qualche settimana dopo venni convocata insieme a mio fratello dal notaio. Ero distrutta, logora e non solo per il dolore. Mio fratello aveva sempre quel sorrisetto un po’ impertinente. Mi dava fastidio anche il suo modo di “darmi coraggio”, come se la donna morta da poco non fosse anche sua madre. Ma c’era qualcos’altro, anche se ancora non riuscivo a capire.
Il notaio, in maniera solenne, iniziò il suo rito, dopo averci spiegato alcuni dettagli sulla procedura. Prese un elegante tagliacarte, d’argento, con un manico ricco di incisioni e iniziò ad aprire la busta. I suoi movimenti erano lenti, troppo lenti. Io non vedevo l’ora di fuggire via da quella stanza e di rinchiudermi nuovamente nella “mia” casa.
Finalmente, dopo aver disteso il contenuto del plico sulla sua scrivania, il notaio diede inizio alla lettura. Ascoltavo e non ascoltavo. Ero in uno stato di torpore. Pensavo fosse una pura formalità e continuavo a sentire forte l’impulso di andar via. Il mio disagio nel “mondo esteriore” era già marcato. A fatica mi ero ricomposta e vestita in maniera decente per l’occasione. Mio fratello era impeccabile come sempre e stranamente rilassato. Ecco ci siamo, il notaio stava per concludere ma la frase finale mi diede un sussulto.
La maggior parte dell’eredità andava a mio fratello. A me restava solo la parte legittima. Ma come? Dopo anni di sacrificio, nemmeno il “diritto” all’equità!
Cercai di balbettare qualcosa. Ma non avevo nemmeno la forza per protestare. E poi, cosa mai avrei potuto dire o fare rispetto alla volontà, presunta, di mia madre. Pensai per pochi istanti a Nikolay, avrei tanto voluto un braccio, in quel momento, su cui appoggiarmi. Mi alzai, invece, barcollante con le mie poche forze e mi trascinai senza fiatare verso l’uscita.

* * *

Fish and chips (parte seconda)

Mi ritrovo adesso nel fish and chips, con quel fucile e con quel biglietto. Con una gran voglia di piangere ma non ho più lacrime da spargere per nessuno, nemmeno per me. Sul biglietto, scritto a mano, una sola parola: sparati. Come se la mia vita fosse già finita e priva di valore. Sarà anche così, ma che sia un’altra persona a ricordarmelo e a propormi una “soluzione” mi manda fuori di cervello.
Sul dorso del biglietto una seconda opzione: quel cane di mio fratello, pieno del suo ego e del suo egoismo, mi invita a lasciargli la mia parte di casa il prima possibile, in cambio di una modesta cifra. Ma io non sono obbligata a vendergli la mia parte. Ma che diamine deve farsene di un’altra casa! Lui già ha la sua, comprata in parte con i soldi di mio padre, di nostro padre. La sua avidità mi lascia sbalordita. Come avrà fatto a convincere mia madre. Forse con la bella faccia del nipote?

Poco dopo la morte di mio padre, avevamo convenuto che l’eredità di mia madre sarebbe stata divisa equamente e che con i miei risparmi avrei poi potuto comprare la parte della casa di mio fratello. Insomma, la casa sarebbe toccata a me. Quando mio fratello fece firmare a mia madre il testamento e lo portò dal notaio io mi fidai. Pensavo ingenuamente di conoscerne il contenuto. Perché mi fidai?

Una parte di me ribolle di rabbia, come un magma represso e compresso nelle mie viscere. Ma sono ormai troppi gli strati di apatia da attraversare. Così mi ritrovo seduta da sola, in compagnia di un oggetto estraneo, a questo tavolo, con le mani intiepidite da una tazza di tè e con lo sguardo perso nel vuoto, nascosta da inutili strati di fard appiccicati sul mio volto in maniera distratta. Mi ritrovo aspettando… senza sapere esattamente cosa.

[come potrebbe continuare la storia? O va bene così? Ci sto pensando, lavori in corso]

© Testo – Stefano Angelo
:: Editing a cura di Salvina Pizzuoli ::
Immagine di copertina di Martin Kollar, modificata.

:: Nota: Questo racconto, ispirato da una foto (di Martin Kollar) mostrataci da Mattia Grigolo durante un suo corso di scrittura creativa del 2019 (organizzato da ItaliaAltrove Francoforte), è un frammento di una raccolta – I racconti della donna con il fucile – che avrebbe dovuto dare vita a una pubblicazione cartacea. Purtroppo, causa COVID e impedimenti vari, il progetto si è arenato. Di tanto in tanto pubblicheremo alcuni di questi frammenti per rievocare un’esperienza, quella del corso, che ha comunque dato il “la” a nuove avventure su questo blog ::

Quadro di Rosa Zerbo - Rosso - 2020

L’ultima prospettiva

:: di Daniela Alibrandi ::

È una mattina come tante altre, del genere che amo. Il cielo terso, l’aria frizzante e i tetti di Via Margutta accarezzati dal sole. L’odore dell’acquaragia non mi infastidisce più, e la tela che ho appena iniziato è il richiamo inconfondibile che non sono mai riuscito a ignorare e che mi porta ad alzarmi con l’unico desiderio di continuare a dipingere.

Era tanto che non sentivo un impulso così forte, una carica interiore talmente prorompente da farmi dimenticare la notte quasi insonne. Sveglio, finalmente pronto a ricominciare. Decido di mettere su un buon caffè il cui profumo, misto all’odore tipico dei colori a olio, crea l’inebriante elisir che ricordavo. E la soffitta, dove ho vissuto e dipinto, diviene adesso la porta tra le umane passioni e l’infinito distacco.

Un mondo vuoto, scevro di momenti e di materia, nel quale il mio animo fluttua e non riesce a scegliere da che verso aprire o richiudere l’uscio. È estate piena e l’alba vista dal terrazzo ricavato nell’abbaino non delude mai. È qui che sorseggio il caffè bollente, inspirando l’aria asciutta di un’estate romana, che potrebbe appartenere all’oggi o a un tempo lontano.

E mentre con lo sguardo indugio sulle tegole colorate e antiche, mi chiedo quanto sarebbe bello iniziare il quadro dalla fine, sapendo che sto per dare l’ultima pennellata su di una tela all’apparenza bianca, riscoprendone tratti e sfumature, che esistono ma che non riesco a mettere a fuoco. Mi tremano le mani e so che il momento di decidere se aprire o chiudere, se entrare o uscire, è inesorabilmente arrivato.

Mando giù gli ultimi sorsi di un caffè amaro, che scuote i miei sensi mentre brucia nella gola e nelle viscere e adesso lo so, senza dubbio, sto per morire. La mia stagione che sembrava infinita sta per scadere. Me ne sono accorto dall’impercettibile cambiamento del ticchettio dell’orologio, più cadenzato, isolato dai rumori dell’ambiente, lento, quasi inesorabile.

Non l’ho visto! Me lo sono trovato davanti e non sono riuscito a frenare… – grida, piangendo, il ragazzo del quale riesco a vedere solo le scarpe da ginnastica. Vorrei avvertirlo che gli si stanno inzuppando, che non doveva indossarle in una giornata piovigginosa come questa.

Anche il mio volto adesso è bagnato da una pioggia fitta e fredda e, se cerco di aprire gli occhi, vedo che gli antichi sanpietrini riflettono a specchio la luce languida dei lampioni sul Lungotevere.

Chiamate l’ambulanza! – gli fa eco la voce di una ragazza, argentina, acuta, mi fa male udirla. Vedo solo i suoi stivali lucidi e le calze a rete che salgono più su del ginocchio, verso le cosce magre. Non voglio che mi aiutino, vorrei essere solo lasciato in pace, perché era da tanto che desideravo conoscere e comprendere ogni verità, era ora che tutto si compisse.

Finalmente sono nel mio studio e posso dipingere qualcosa di eterno.

Passi frettolosi attorno a me, ma io sono già lontano e la gamma di colori che vedo è immensa, così come sembra infinita la quantità di azioni che sto lasciando in sospeso. Non c’è più spazio per le mie fughe e i miei silenzi.

Devo terminare la tela, prima che tutto finisca, e l’ultima pennellata deve essere la più forte, deve lasciare il colore in rilievo, anzi meglio ancora se è un colpo di spatola, talmente alto che potrebbe far scivolare la mano all’indietro.

In un baleno chi ha attraversato la mia esistenza è vicino a me, una moltitudine di occhi che mi scrutano, ma ancora non ho risposte alla loro muta domanda, che faccio mia, mentre mi chiedo perché mai non ho saputo o voluto esprimere ciò che provavo. Solo adesso, se avessi la forza, mi alzerei in piedi e griderei l’amore che ho taciuto, le lacrime di meraviglia che ho nascosto nel guardare il mare, i brividi che ho rinnegato scoprendo il sesso.

Mi alzerei, sì, e davanti ai loro sguardi increduli scuoterei forte quella ragazza che continua a urlare, isterica, dicendo che sembro davvero morto, che sono proprio morto. Le direi che la vita in fin dei conti non è altro che la finzione dell’essere. Che la morte alla fine è solo la verità del nulla. Che sì, è vero, adesso ci sono solo tante luci e infiniti colori, dove immergere il pennello.

E posso abbandonarmi finalmente alla carezza nell’anima che sento, all’impalpabile stretta di una mano invisibile sul mio cuore, che stringe e spreme i miei sentimenti. E ti vedo, non così come sei ora, vecchia e con le mani macchiate, che dimenerai disperata quando ti diranno che sono morto, che non ci sono più. Griderai che non può essere vero, ma che lo sapevi, prima o poi ti avrei tradito ancora, lasciandoti sola. No, non così, ti rivedo invece come eri quell’estate, con i capelli sciolti e gli occhi grandi, distesa sulla sabbia ancora calda, mentre vibravi forte alle mie carezze e mi lasciavi spingere la lingua tra le tue labbra. Il tuo sapore di miele, i tuoi capezzoli turgidi, l’odore di scoglio confuso col profumo degli oleandri.

Dal colpo di spatola finale adesso torno indietro a dipingere di azzurro chiaro l’armonia, perché non te l’ho mai detto quanto eri bella allora e quanto sei bella adesso, con i capelli bianchi, le rughe e gli occhi stanchi! E ancora il tratto scorre indietro agli anni rosa tenue delle ninne nanne, delle poppate infinite. Tra le mie mani i pennelli si muovono impazziti, spalmando il rosso intenso degli slogan gridati nei cortei di protesta, fino al nero delle notti insonni e dei lutti insopportabili, al verde dei prati dove ci stendevamo tranquilli quando avevamo marinato la scuola, distese verdi di quel verde intenso nel quale a sbocciare erano solo fiori e non siringhe.

Poi il grigio chiaro, il colore limpido delle canne fumate nei bagni di scuola. Il giallo, l’arancione e le sfumature violette che annunciano l’intensità del tramonto, e solo ora mi accorgo che ogni giorno muore in un modo tutto suo, come ogni essere umano, ghermendo nel suo transito le profonde gioie e le incancellabili disperazioni che lo hanno animato.

Il verde chiaro delle nostre illusioni, la trasparenza delle tue lacrime per i miei tradimenti, il freddo indaco per i miei rimorsi… la osservo e la tela adesso è un vero splendore.

Inutile il trasporto in ospedale, è andato, – dice perentorio il medico, sceso dall’ambulanza che è arrivata squarciando il silenzio sospeso di chi assiste alla mortalità; e io ho udito chiaramente le sue parole. Nessuno si accorge che sono felice, mentre vorrei portare con me il profumo di umido e di pioggia, quello che da sempre colma il mio animo, in attesa dei raggi di sole.

Mi allontano dalla tela che ho dipinto con tanto fervore, camminando con passi lievi e orgogliosi nello studio da pittore di quel tempo lontano, nello spazio che da anni non mi appartiene più. Dio quanto mi è mancato! penso, mentre irrefrenabili sgorgano le lacrime di chi inspiegabilmente viene avvolto, all’improvviso, da una folata di vento tiepido. E mi accorgo che fuori anche il giorno sta morendo e che i tetti di Via Margutta riflettono quegli ultimi e sconfortanti sprazzi di luce nel mio sguardo spento.

I colori perdono intensità, si affievoliscono e la tela sta tornando vergine come lo era all’inizio ed è questo che vorrei sussurrare adesso all’orecchio di quella ragazza, che ancora piange e si dispera. A lei che tra qualche ora cercherà di dimenticarmi, sfilerà veloce le sue calze a rete e farà l’amore per non ricordare. Vorrei asciugare quelle lacrime, tirarle indietro i capelli, baciarla nella bocca e raccontarle la stupenda verità che ho scoperto solo adesso. Lei non mi crederà, si pulirà le labbra dalla saliva di un vecchio e correrà via. Il ragazzo la seguirà con le sue scarpe da ginnastica inzaccherate, la terrà ferma per un braccio, non comprendendo il perché della sua fuga. Nessuno crederà che il vecchio morto investito l’ha baciata, nessuno crederà a quello che le ha detto in un sussurro. Ma lei giurerà, spergiurerà che è vero e che lo ha udito chiaramente con le sue orecchie. Lo griderà disperata, tirandosi i capelli.

– Calmati! – cercherà di sedarla lui, abbracciandola, ti credo, smettila di urlare, che ti ha detto?

– Una cosa bellissima e terribile, ho perfino paura a raccontarla, – tra i singhiozzi lei tirerà su col naso, pulirà il muco col dorso della mano e alla fine parlerà, – mi ha confessato che la morte non arriva mai senza avvertire e che non è sopraffazione, ma restituzione. Mi ha assicurato che c’è un attimo, una frazione di secondo che solo la morte sa regalare, tra luci e ombre, fastidiosi suoni stridenti e leggeri accordi di arpe. Ed è in quel frammento di tempo dilatato che solo lei, la morte, sa mostrarti ciò che sei stato e che avresti potuto essere, restituendoti in un solo istante quello che hai perso nell’insensato palpito di vita .

© Testo – Daniela Alibrandi
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:: Editing a cura di edida.net ::

© Immagine – Rosa Zerbo (2020 – acrilico, spatola)

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Letto di ospedale

Il Maestro

:: di Andrea Guglielmino ::

Rantoli. Rumore di ossa che scricchiolano. Flatulenze. Colpi di tosse.

È lì, 89 anni compiuti a gennaio, è lì, inerte, scheletrico, vulnerabile. Tutti noi dell’infermeria lo chiamiamo con rispetto “Maestro”, e a tutti sembra assurdo che sia avvolto nelle medesime lenzuola che hanno ricoperto centinaia di “signor nessuno” che sono andati e venuti dall’ospedale, a volte tornati più volte, a volte per salutare per sempre questo mondo. In pochi hanno osato rivolgergli domande sul suo lavoro.

Osannato ovunque, celebrato. Direttore d’orchestra per le più famose filarmoniche del mondo, ha composto per i più grandi registi colonne sonore di film considerati unanimemente capolavori del cinema mondiale e ricevuto nomination e premi di ogni genere.

Qui, però, è solo una persona anziana alla fine dei suoi giorni. Ne abbiamo visti di personaggi famosi, ma non ci si abitua mai alla nostra prospettiva. Quando arrivano qui sono tutti uguali, tutti malati. Soprattutto quando le condizioni sono critiche. La malattia e la morte equilibrano l’universo.

E poi, in questo caso, non è la fama che fa grande qualcuno. È il talento.

Il Maestro è qui da marzo. Viveva e respirava musica. Notava il tintinnio delle posate quando gli servivano la cena, finché è stato in grado di mangiare. Era rapito dal canto dei passeri quando gli addetti alle pulizie aprivano la finestra per far cambiare aria alla stanza. Faceva arte con gli strumenti che aveva. Un giorno chiese dei bicchieri e li riempì d’acqua a livelli diversi per creare una piccola melodia sfregando attorno al bordo di ciascuno con le dita inumidite. Tutto il reparto applaudì.

Cercava sua moglie, ogni tanto, ed era sempre difficile ricordargli che se n’era andata prima di lui, due anni prima.

Il Maestro sembrava così irraggiungibile, intoccabile. Eppure oggi dobbiamo toccarlo per permettergli di avere una dignità e dei vestiti puliti. Dobbiamo cambiarlo, rivoltarlo, cambiargli posizione perché non decubiti, ogni sera. Vorremmo accarezzarlo, trasmettergli più affetto e rispetto. Vorremmo fare di più, ma i ritmi frenetici di corsia di questi giorni non sempre lo consentono. Siamo stremati.

Il Maestro è nella condizione in cui finirà, presto o tardi, ciascuno di noi. Il Maestro è noi e noi siamo lui. E per questo gli vogliamo bene. Forse è sempre stato così, per questo ci siamo riconosciuti nelle sue partiture e le abbiamo amate così tanto, anche senza necessariamente comprenderle fino in fondo.

È gentile il Maestro. E quando qualcuno, per distrarlo, gli chiedeva come fosse dal vivo questo o quel regista, rispondeva sempre: “normale”. Certo. Per lui, che è così grande, sono tutti normali. Il mondo è meravigliosamente, armonicamente normale. Anche oggi, che siamo qui a rivolgergli quello che, lo sappiamo, sarà probabilmente l’ultimo saluto.

Rantoli. Rumore di ossa che scricchiolano. Flatulenze. Colpi di tosse. Dati a cadenza ritmica. Un rantolo, due ossa, tre colpi di tosse, una flatulenza. Rantolo, ossa, tosse, flatulenza. Un valzer, forse. Non sono esperto di musica. Nessuno di noi lo è, ma quella del Maestro arriva al cuore, anche se costruita con i rumori della decadenza. Tutti abbiamo capito.

Non stava solo morendo.

Ci stava offrendo un regalo, un ringraziamento. La sua ultima sinfonia, composta con il suo corpo in disfacimento. L’ultimo strumento che ha a disposizione, e che presto abbandonerà per diventare lui stesso musica.

© Testo – Andrea Guglielmino

:: Editing a cura di Stefano Angelo ::

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