Happy days
:: Alessandra Facciolo ::
Le note graffianti di Streets of Philadelphia mi accolsero all’entrata del locale, “non può essere una brutta giornata se la condividi con il Boss”, mi dissi accomodandomi al solito tavolino un po’ defilato. La cameriera, con il grembiulino bianco e la divisa rosa, arrivò con il caffè caldo e la tazza e li posò sul tavolino senza parlare.
“Grazie” sorrisi, poi tirai fuori dalla grossa borsa il pesante involucro e, con delicatezza, cominciai ad aprirlo. Tolsi prima il nastro, poi la carta grigia che lo avvolgeva e infine lo sollevai e contemplandolo lo appoggiai davanti a me, lasciandolo lì in bella vista. Con cura ripiegai la carta, riavvolsi il filo e li riposi nella capiente sacca vicino a me.
Bevvi con calma il pessimo caffè, ancora tiepido, osservando il locale oltre il bordo della tazza. Non c’era nessuno a quell’ora e la cameriera era ancora occupata dietro al bancone a sistemare tazze e bicchieri usciti ancora fumanti dalla lavastoviglie. Un uomo, vicino alla porta, beveva una birra. Fuori, sulla grande strada polverosa, passavano poche macchine, per lo più dirette verso il centro della piccola città. Nessuno passeggiava sullo stretto marciapiede. A quell’ora, normalmente, tutti si affrettavano verso casa, per preparare la cena e godere, in pantofole, delle ultime ore del giorno.
Quando più tardi la ragazza prese la tazza ormai vuota e passò oltre senza disturbarmi, neanche me ne accorsi. Tenevo lo sguardo fisso davanti a me: sul tavolo e su quell’oggetto posto quasi a distanza di sicurezza. Certo, doveva averne viste quella ragazza per non fare neanche il minimo accenno riguardo all’oggetto posto sul mio tavolo. Ma in quel momento ne apprezzai la discrezione. Non mi sentivo pronta a rispondere a domande o a dare spiegazioni. Non ne avevo neanche per me.
“Che curioso contrasto” pensai invece, stupendomi della frivolezza dell’immagine, “un vecchio fucile da caccia su un tavolino rosa e azzurro di un locale anni ’50”. Alzai gli occhi guardandomi intorno, “chissà che effetto faccio”, mi dissi, “una vecchia signora sola, vestita in modo discutibile, davanti a un fucile e una lettera, in un tripudio di colori pastello”.
Il mio aspetto lasciava un po’ a desiderare. Ero uscita senza guardarmi allo specchio, vestita come per casa, e i miei capelli… sì, decisamente avevano bisogno di una messa in piega o almeno di una pettinata! Da quanti giorni non lo facevo più? Dovevo aver perso il conto. Che cosa mi avesse spinta ad uscire da quella casa all’imbrunire ora non lo rammentavo neanche più, ma ormai ero lì, lo avevo fatto e tanto bastava.
“Surreale” mi ritrovai a pensare. Sì, decisamente la situazione lo era.
Era la prima volta, dopo esattamente quindici giorni, che avevo abbandonato le quattro mura della mia stanza, che avevo aperto la porta. Era stata dura lasciare il letto, uscire allo scoperto. Non avevo impegni, niente scadenze, nessun appuntamento. Non avevo intenzioni bellicose, anzi. Non avevo desideri di riscatto. Piuttosto mi resi conto di aver bisogno d’aria. Sì, proprio di aria fresca! Mi ero diretta in strada, verso il parco, salvo poi allontanarmene in fretta alla vista della varia umanità che a quell’ora lo popolava. Proseguii lungo la strada e senza rendermene conto mi ritrovai davanti a quel caffè. Non avevo voglia di rimestare nei ricordi, né di ripercorrere luoghi e pensieri. Forse avevo solo bisogno di scoprire che, nonostante il “mio personale terremoto”, il resto del mondo era rimasto saldo, fermo, indifferente.
Questo mi dissi varcando la soglia.
Ma ora che, seduta, contemplavo il menu del giorno senza leggerlo, lo sconcerto che mi aveva avvolta e riempita nei giorni precedenti, lasciò il posto a un grande vuoto. “Sono sull’orlo del baratro o magari sono al nastro di una partenza o, forse, solo all’inizio di un esaurimento nervoso… prima o poi deciderò” mi dissi. I pensieri si affastellavano senza ordine apparente. Non era la solitudine, che ora avvertivo chiaramente, a spaventarmi, quanto piuttosto il dover riprendere in mano il timone della mia esistenza, ridirezionare il viaggio e riprendere a navigare. Improvvisamente, da un cassetto della memoria saltò fuori una frase da uno dei miei film preferiti: “… è strano come le situazioni si impongano anche quando non le vuoi…” L’avevo sempre amata quella frase e mai come ora la trovai calzante, perfetta per ciò che mi stava accadendo. Certo, la decisione finale non era stata la mia, mi era stata piuttosto imposta, l’avevo subita, e mi ritrovai a chiedermi quando era cominciato il lento abbandono, quando avevamo cominciato a perderci senza renderci conto di quello che ci stava accadendo. In tutta coscienza non potevo dirmi sorpresa, ma, confidando nella solita e inveterata inerzia che sfociava spesso nell’apatia, mi ero assuefatta all’idea che la mia vita continuasse nel consueto solco fatto di quotidianità, televisione, qualche libro, un po’ di musica e poche parole, per lo più inutili.
La malinconica dolcezza del tramonto predispose il mio animo a pensieri poco bellicosi e più meditativi o forse meditabondi. Fissando il fucile di fronte a me, rividi quel negozio di tanti anni fa, ripensai a me stessa e all’entusiasmo ancora giovane di un’assolata mattina di primavera, al campanello della porta e alla penombra ingombra di passato e di ciarpame che mi aveva accolta appena varcata la soglia. Sapevo già cosa volevo e lo indicai sicura al vecchietto che mi scrutava dietro le lenti sporche appoggiate sulla punta del naso: un vecchio fucile da caccia, risalente forse alla Guerra di Secessione o magari all’epoca della febbre dell’oro, un residuato bellico dimenticato da un paio di secoli. L’avevamo visto un paio di giorni prima in vetrina, mentre passeggiavamo pigri per la città, io avevo colto il lampo di curiosità nei suoi occhi e avevo deciso di regalarglielo per l’imminente anniversario. Una novità quel regalo nella quiete monotonia delle nostre abitudini: un mazzolino di rose, un dolce e un bacio accennato, questo era il copione consueto dei pochi eventi da calendario. La sua faccia stupita alla vista dello Springfield ripulito e lucido era stata la mia migliore ricompensa, l’avevo decisamente sorpreso e anche felicemente. Negli anni successivi l’avevo visto spesso smontare e rimontare l’arma, ripulirla e ammirarla; l’aveva persino rimessa in funzione e si era spinto fino a un poligono di tiro per provarla, tra la curiosità e l’ammirazione di tutti. Lo Springfield in casa faceva bella mostra di sé sopra il caminetto, al centro della casa. E lì era rimasto negli anni, a lui il compito di spolverarlo, pulirlo, oliarlo e riporlo di nuovo al suo posto d’onore. Anche il fucile, come tutto il resto, era entrato nella monotona consuetudine delle nostre vite.
Eppure ero convinta che non se ne sarebbe mai privato, c’è chi si affeziona a un cane, a un gatto, a una moglie persino… c’è chi non si separa da un libro, da un vaso cinese, lui aveva il suo fucile, compagno dei suoi pensieri, testimone privilegiato della commedia della nostra vita coniugale. Certo come “sit-com” lasciava un po’ a desiderare: statica, sicuramente, pochi dialoghi, spesso ripetuti, sicuramente banali. Ma era la nostra vita.
E invece se ne era andato lasciandolo lì al suo posto, come me d’altronde, ma non era stata una dimenticanza, no al contrario: era stata una scelta precisa, l’ultima vigliacca stoccata. Sì, perché attaccato al calcio avevo trovato un biglietto scritto di suo pugno: un cartoncino doppio, uno di quelli che conservavamo nel cassetto in alto a destra della scrivania, uno di quelli che si usavano per gli auguri per le feste, per i compleanni o per le condoglianze. Lui ne aveva scelto, o più probabilmente preso a caso, uno a tema pasquale: pulcini e uova colorate, un’atmosfera primaverile, di festa, che invitava alla pace e che cozzava pesantemente con le poche parole scritte di fretta con la sua consueta grafia un po’ storta: “Non ne ho più bisogno, la guerra è finita”.
Che cosa intendesse dire non mi era chiaro, non comprendevo il senso di quelle parole e neanche i sottintesi. Ma ciò che, invece, avevo afferrato immediatamente era la stilettata velenosa, l’acredine, quell’astio che mi era arrivato come un pugno allo stomaco. Da dove si originasse quella rabbia non lo capivo, così come ne ignoravo totalmente le ragioni.
Nei primi momenti di sconforto e smarrimento avevo ripercorso dapprima le ultime settimane, poi i mesi e poi gli anni alla ricerca dell’origine, della sorgente di tutto, ma non avevo trovato nulla.
Possibile che non mi fossi accorta di niente?
Che ormai, così assuefatta alla quotidianità, non mi fossi resa conto che qualcosa stava cambiando?
Che il leggero venticello stava silenziosamente evolvendo in tempesta?
O forse non avevo voluto cogliere io stessa le avvisaglie, possibile che fossi stata così cieca?
Cieca lo ero stata sicuramente, ma scema no!
Qualcosa era successo e decisi di scoprirlo, anche se ci avrei impiegato il resto della mia vita. Tempo ne avevo. Ma da dove cominciare?
Mi sentii improvvisamente un naufrago approdato in terra straniera, senza più radici né punti di riferimento. Mi sentii tanto piccola in una vita tanto grande ed ebbi pietà di me stessa. Mi vidi lì, sola, persa, indifferente alla pioggia degli eventi che mi erano piovuti in testa. Nel frattempo un nuovo sentimento si faceva spazio nella mia anima confusa: una dolce malinconia che colmò la mia ansia e mi permise, finalmente, di piangere. Piansi a lungo, piansi in silenzio, piansi grosse lacrime che, scendendo lungo il viso, si raccolsero nelle mani chiuse in grembo. Quando ebbi esaurito tutta la mia scorta, rialzai la testa e mi guardai intorno cercando di vedere oltre il velo del pianto. Nulla era mutato all’interno del locale, la cameriera era ancora dietro il bancone e leggeva una rivista, concentrata sulle ultime novità da Hollywood. L’uomo vicino alla porta si era assopito sul boccale ormai vuoto. Anche la musica si era interrotta, e nell’aria rimaneva solo il ronzio continuo del neon che illuminava sinistramente metà del locale.
Era ora di tornare a casa. Aprii la borsa e cercai una banconota che lasciai sul tavolo sotto il portacenere trasparente. Poi tirai fuori la carta grigia e, di nuovo, incartai il mio muto compagno riponendolo nella grande sacca con cura. La strada verso casa non mi era mai parsa così lunga. Camminando veloce mi guardavo intorno, circospetta, all’inizio timorosa di incontrare volti noti a cui avrei dovuto, necessariamente, fornire spiegazioni che non avevo. Poi rallentai, ammaliata dalla luce sbieca del crepuscolo e mi chiesi con stupore se le strade, gli alberi, le facciate delle case potessero avere, anche loro, una memoria. Se potessero conservare il rumore dei passi, i richiami delle madri, le risate degli amici, i sussurri degli amanti o se anche tutto questo fosse destinato a perdersi, nel silenzio sospeso del crepuscolo.
Alla luce ormai incerta della sera mi fermai sul ponte del piccolo fiume che attraversava la città. Appoggiata al parapetto vidi ciò che era rimasto del mio matrimonio cadere in acqua e affondare, mentre il biglietto, galleggiando, proseguiva la sua corsa solitaria trascinato dalla corrente. Quando, poco dopo, scomparve anche lui nell’oscurità, ripresi la strada del ritorno.
La casa mi accolse, buia ma familiare: il giardino ben curato, la staccionata bianca e il porticato con il dondolo di legno e i cuscini a fiori. La caraffa del tè di vetro blu con i grandi bicchieri colorati era rimasta sul tavolino di ferro battuto vicino alla porta. Una lunga scia di piccole formiche approfittava della mia assenza, banchettando con le briciole sul pavimento di assi della veranda. In una giornata normale mi sarei precipitata a ripulire, ma in quel momento mi limitai a guardarle e, dopo averle scavalcate avendo cura di non disperderle, entrai in casa.
Mi sedetti sui primi gradini della scala di legno davanti alla porta e lì rimasi in attesa, con la testa appoggiata di lato alla balaustra bianca. Mi assopii e sognai sogni confusi e facce note. Quando, trasalendo riaprii gli occhi, lasciai che i battiti del mio cuore rallentassero e smettessero di rimbombare forte nella mia testa, prima di alzarmi e salire. Al buio, a tentoni, attraversai a passo sostenuto il lungo corridoio, aprii tutte le porte che incontrai lungo il passaggio e mi diressi spedita nella stanza matrimoniale, verso il grande armadio ai piedi del letto. Spalancai tutte le ante superiori e inferiori con forza, facendone gemere le cerniere, poi afferrai i cassetti e ne svuotai il contenuto sul pavimento in un tripudio di camicie dai colori spenti, cravatte regimental e completi di fresco lana. Poi passai alle magliette, alle polo, ai maglioni e alla biancheria intima. Solo quando ebbi scovato anche i fazzoletti, i pantaloncini per lo sport, le sciarpe, i cappelli e i costumi da bagno mi arrestai e, esausta, mi guardai intorno. Nel marasma generale intravidi un attimo, nel grande specchio sopra la cassettiera, la mia faccia. Nella corsa concitata non avevo neanche acceso le lampade e nella camera, appena rischiarata dalla luce giallastra del lampione sulla strada, mi sembrò di scorgere uno spettro: gli abiti in disordine, i capelli dritti e spettinati, gli occhi spalancati e lucidi sul viso scuro in penombra. Avevo ancora le scarpe e la giacca, la borsa a tracolla e la sacca sotto il braccio. Tutto appariva stravolto anche i gesti consueti e quotidiani erano saltati. Mi bloccai di botto e una risata mi risalì in gola e mi scoppiò in bocca: risi, risi tanto, risi forte, risi fino alle lacrime, risi accasciata a terra strappando camicie e lanciando calzini, calpestando giacche, rompendo bottoni. Lo feci a lungo, lo feci meticolosamente e, quando alla fine rialzai la testa, tutto mi apparve nuovo e possibile.
Improvvisamente leggera, spinta da una nuova forza mi sollevai da terra e, recuperati dei sacchi neri, li riempii di tutto ciò che ingombrava il pavimento, il letto e i mobili. Poi passai alle altre stanze e le svuotai di tutto il passato: oggetti, libri… Ogni sacco venne riempito e chiuso e a ogni sacco la medesima sorte: un lancio preciso dal primo piano nel giardino sul retro. A notte fonda una collina scura copriva la visuale del giardino dalle finestre della cucina, ma io non la vidi, i miei occhi erano proiettati oltre lo spazio ristretto della mia esistenza, verso un nuovo chiarore lontano, verso l’orizzonte.
© Testo – Alessandra Facciolo
:: Editing a cura di Stefano Angelo e Salvina Pizzuoli ::
Immagine di copertina di Martin Kollar, modificata.
:: Nota: Questo racconto, ispirato da una foto (di Martin Kollar) mostrataci da Mattia Grigolo durante un suo corso di scrittura creativa del 2019 (organizzato da ItaliaAltrove Francoforte), è un frammento di una raccolta – I racconti della donna con il fucile – che avrebbe dovuto dare vita a una pubblicazione cartacea. Purtroppo, causa COVID e impedimenti vari, il progetto si è arenato. Di tanto in tanto pubblicheremo alcuni di questi frammenti per rievocare un’esperienza, quella del corso, che ha comunque dato il “la” a nuove avventure su questo blog ::
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