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San Valentino

San Valentino

:: di Lyes ::

Arrivai alla “Casa della pietà misericordiosa” che era buio. Ero stata tutto il giorno nel dubbio se andare oppure no. Ma poi al diavolo. Quella donna aveva significato qualcosa per me da ragazzina e non l’avevo dimenticata.

Chiusi gli occhi, per trattenere l’emozione e mi vidi ancora lì, ancora adesso. Riuscivo quasi a percepire gli odori di quell’estate rovente. Giocavamo mezzi nudi per strada. Gli adulti seduti su sedie disposte sull’uscio aperto di casa, per la leggera corrente che si generava e che dava un refrigerio apparente. Noi, a rincorrerci con secchi d’acqua, maschi contro femmine in questa danza di inizio adolescenza dove se ti tocchi per sbaglio o se qualcuno ti prende in braccio, per gioco, è ancora concesso, anche se già vuol dire qualcosa di più. Si affacciavano in noi le prime pulsioni sessuali e nessuno voleva stare in disparte. Vedevo i maschi guardare sgomenti i seni ormai sbocciati delle mie amiche e volevo morire, sprofondare, essere risucchiata dalla polverosa terra riarsa. Io, che invece avevo ancora due minuscoli bottoncini sotto la canottiera bianca, li guardavo umiliata.

Nina, veni cà (vieni qui).

Andai obbediente dalla nonna di Clara.

Nu misi nci dugnu, e ti zumperanno tutti i supa. (Nel tempo di un mese, ti salteranno tutti addosso)

Mi sorrise, col suo sorriso di cartapesta e io feci altrettanto.

Entrai in una stanza male illuminata. Con candelieri finti alle pareti. Con scritte stampate sui muri: “Pentitevi prima che sia troppo tardi”, “la verginità è una virtù che spalanca le porte del paradiso” e altre amenità e mi chiesi che c’entrava la nonna di Clara con questo posto orrendo.

Non la riconobbi. Pensai inorridita che la morte ti trasfigura i lineamenti e che un giorno sarebbe toccato anche a me stare lì, morta e irriconoscibile.

Una, che credetti una parente, mi si avvicinò e mi disse in maniera grave e solenne:

– Era una gran persona, non è vero?
– La migliore. Mi ha dato fiducia quando non l’avevo.

La signora s’impensierì. Gli angoli della bocca invece di salire, si catapultarono verso il basso e percepii una sottile tensione. Non sapevo bene come continuare. Forse era troppo misera come commemorazione. Continuai mettendoci più enfasi.

– MI ha detto le parole giuste quando serviva. MI ha fatto sentire speciale.

L’effetto fu anche peggiore del precedente. Con la faccia stupita, a punto interrogativo, mi chiese:

– Perdonami cara, ma quando te le avrebbe dette queste cose?
– Quando ero una ragazzina.
– Una ragazzina? Cioè? – lasciando trapelare lo smarrimento –

Non so perché cominciai a sudare freddo. Cos’erano tutte quelle domande. Cosa stavo dicendo di sbagliato?

– Sì, insomma, mi ha fatto sentire bella come nessuno mai prima.

All’improvviso un pianto dirotto e disperato la scosse. Come fosse una ragazzina lei, adesso.
Singhiozzava violentemente e io ero senza parole. Non avevo idea di chi fosse quella signora.
Un istinto primordiale di autoconservazione mi suggerì, non so come, di aggrapparmi a qualcosa di reale e mi misi a leggere, sul manifesto ai piedi della cassa, il nome della morta.

Del morto!
Ottavio Romano. Bel nome. Ma non il “mio” nome e non “la mia morta”.
Avvampai.

Uscii farfugliando inutili scuse, cercando di chiarire la mia posizione ormai compromessa e compromessa anche quella del morto, che poveretto non poteva nemmeno difendersi, il cui ricordo sarebbe stato per sempre offuscato per colpa mia che nel frattempo avevo cominciato a ridere in maniera sconveniente e inopportuna. La vedova mi guardava andare via, sconcertata.

Scoprii così che la “Casa della pietà misericordiosa” aveva tante casette e che dava riposo a più “ospiti” contemporaneamente.
Ma mettete indicazioni più chiare se è così che funziona!

Entrai finalmente nella casa giusta, senza finti candelieri alle pareti e soprattutto senza scritte da Medioevo sui muri, e mi trovai di fronte quattro generazioni di donne.

La morta, nonna della mia amica. La mia amica, sua mamma e sua figlia.

Nonna e nipote erano sedute accanto. Stessa corporatura. Stessi occhi neri come pece e stesse labbra carnose. La nipote però sovrastava la nonna di almeno quaranta centimetri e l’effetto era un po’ matrioska. L’anziana aveva i capelli neri corvini raccolti a treccia sulla nuca. La giovane li portava rosso fuoco, tagliati all’altezza delle spalle, se la guardavi da destra. Se la guardavi da sinistra, completamente rasati. Vestita di nero d’ordinanza la nonna. Mentre la nipote indossava una felpa sempre nera ma con una scritta al centro bianca: FUCK YOU! Tutto maiuscolo. Jeans, manco a dirsi, strappati. Le unghie verde fluo.

Erano uno spettacolo. Le guardavo ipnotizzata.

MI raccolsi un attimo in silenzio, pensando a quello che avevo da dire alla morta, per salutarla, ma avevo già detto tutto a Ottavio e quindi non avevo altro da aggiungere.

Io e Clara volevamo invece dirci tante cose. Sembrava non fosse né il luogo né il momento adatto ma fu lei che si avvicinò per prima e mi abbracciò. Cominciammo a parlare a bassa voce, quasi sussurrando, di quello che ci era successo in quegli anni, come se non fosse passato tutto quel tempo. Come fosse stato solo ieri.

– Mio marito voleva prenderti a schiaffi, appena ti ha vista al nostro matrimonio con quel vestito da “poco di buono”.

Erano passati quindici lunghi anni. Si erano sposati il 14 febbraio. Di San Valentino. Avevano voluto celebrare il compleanno di Clara e il matrimonio insieme. E l’occasione, il colore e l’abito mi erano sembrati quelli giusti.

Questa era la prima volta che parlavamo da allora.

Ed era vero. Mi vergognavo da morire adesso. Non mi capacitavo di come avessi potuto osare tanto. Io che, anche a sedici anni, pur potendomelo permettere, non avevo mai esagerato nel mettermi in mostra.

Al loro matrimonio ero invece stata ai limiti della decenza. Avevo quel maledetto vestito rosso fuoco, e sì aveva ragione il marito. Mi guardavano tutti. Ma io mi sentivo pura e innocente e dalla parte della ragione. Anche se devo confessare, ero single e avevo una gran voglia di divertirmi.

Lo feci. E il marito, fresco di pacco, della mia amica si incazzò ancor di più appena scoprì che mi ero portata a letto un “di lei lontano parente”.

Non so, forse il fatto che fossi l’amica intima della sua, ipoteticamente ancora casta, sposa lo indispose.  Ma non me ne curai allora e men che meno oggi. Davanti alla vecchina morta mi dissi che era stata una serata memorabile. Più che soddisfacente. E che la nonna di Clara avrebbe approvato. Anche se poi si scoprì che il “di lei lontano parente” era pure fidanzato, che “scemunito”, ma vabbè. Cose che capitano.

Ricordammo insieme la faccia stralunata di sua suocera quando mi chiese ingenua: quello è il tuo ragazzo, cara?

E io, che non vedevo l’ora nella vita di poter usare una frase tratta da uno dei miei film preferiti, risposi candidamente: no no, lo uso solo per il sesso!

– Ah bene!

… scappò detto alla suocera prima di capire cosa avevo effettivamente risposto, per poi improvvisare un mancamento da vera bigotta. Miracolosamente si riprese in pochi istanti e come posseduta da satana cominciò a insultarmi e io, attonita, mi chiesi perché a questa sconosciuta o al mondo intero fregasse tanto con chi andassi a letto io.

Cominciammo a ridere e Clara mi tirò per un braccio e mi portò fuori dove, camuffando le risa con un pianto disperato, chiunque la incontrasse si meravigliava e riteneva forse un po’ esagerata e fuori luogo questa “disperazione” per la vecchina. Che sì, era la nonna, ma già ultracentenaria, morta nel sonno, nel suo letto, con un bel sorriso stampato in faccia che le durava tuttora.

Clara, soffocando le risate, si beveva le lacrime e accettava le condoglianze con una sacralità e una dignitosa compostezza che non le riconobbi nemmeno quando ci diedero la prima comunione, cosa a cui aveva tenuto tantissimo.

Ora eravamo qui, l’una di fronte all’altra e io ero stata per tanto tempo arrabbiata con lei. Tremendamente arrabbiata. Perché aveva lasciato che il marito s’intromettesse tra di noi e mi aveva messo da parte. Perché ogni compleanno passato senza il suo “auguri piccolo soffio del mio cuore” era stato meno bello. Perché pensavo a tutte le volte che l’avrei voluta accanto, per ridere, piangere, rimproverarmi e fare le sceme.

Eravamo un po’ tristi per davvero adesso. E mi venne in mente che magari anche lei stava pensando le mie stesse cose. Che forse anch’io avrei potuto provarci di più. Fare meno la vittima, “quella che se la prende”. Avrei potuto, dovuto, alzare il telefono e chiamarla. Nonostante il marito.

Le accarezzai la guancia e le diedi un bacio. Allora mi resi conto che il silenzio certe volte, non bastava, anche se ci si era capite. Ero sempre stata quella che dosava troppo le parole. Ma bisognava anche dirle, a chi se le meritava, quelle giuste.

– Mi dispiace tanto, Clara.
– Anche a me.
– Buon compleanno, piccolo soffio del mio cuore.
– Grazie – mi rispose sorridendo.

Era oggi il 14 febbraio, San Valentino.

Mi alzai per andare.

– Nina?
– Dimmi.
– Mi chiami?
– Ti chiamo.

© Testo – Lyes

Immagine di Claudette Gallant da Pixabay (con relativa licenza)

Primo piano di un gatto

Il sergente

:: di Lyes ::

Ero andata via dall’ufficio senza salutare. Non lo facevo mai, ma in quei giorni ero stanca di tutto e di tutti. Questo dover oltrepassare i controlli e una sbarra all’entrata e all’uscita dal lavoro, mi rendeva intollerante, antipatica e claustrofobica. Particolarmente. Perché già lo ero di mio…

Ma non da quando c’era lui. Avevo cominciato a notarlo qualche settimana prima. Cambiavano sempre e da poco era arrivato questo marcantonio dagli occhi blu che guardava sempre fisso davanti a sé.

Nemmeno trentenne, io con qualche anno in più, aveva gli occhi del mare d’inverno, carnagione scura e lineamenti marcati. Sembrava uscito da una vecchia pubblicità della Coca-Cola.

Però non sembrava affatto essere il bulletto a cui si atteggiava. Forse perché mi ricordava, a tratti, un caro amico d’infanzia, con cui avevo passato l’adolescenza e a cui avevo regalato la mia verginità. Avendo perso il padre da bambino era sempre incazzato col mondo. Faceva il bulletto ma io un po’ lo compativo. Così, non dando poi tutta quest’importanza all’evento, decisi che la nostra era comunque una forma d’amore e mi lasciai sedurre con affetto, anche se nessuno dei due era veramente innamorato. Crescevamo insieme e basta.  

Il marcantonio mi controllava i documenti e non mi degnava di uno sguardo. Nemmeno per vedere se la foto corrispondeva. Mi faceva aprire l’auto, ma niente. Neanche al mio stringato, ma almeno civile, saluto era seguita mai alcuna occhiata, un sorriso, nulla. Forse era solo questo a renderlo interessante ai miei occhi. Quasi rallentavo per farmi fermare quando c’era lui. Ma ero una donna e non mi fermavano spesso.

Non oggi però. Oggi controllavano tutti.

Ogni tanto accadeva che ricevessero ordini dall’alto che bisognava ispezionare tutti.

Ed eravamo in fila. Pazienti gli uomini. Le poche donne, meno. C’era sempre qualche scusa: figli da andare a prendere, correre a fare la spesa, cucinare, riunioni a cui partecipare. Insomma sembrava che gli uomini, in confronto a noi, non avessero mai niente da fare.

– Gentilmente mi apre dietro?
– Certo.

Che voce stridula mi era uscita. Mentre sprofondavo dalla vergogna aprii il portabagagli e subito mi caddero a terra le mille cianfrusaglie stipate dentro la macchina che usavo ormai come una seconda casa.

A entrambi venne automatico chinarci per prenderle e così, grazie a questo gesto quasi involontario, ci toccammo per la prima volta dandoci una severa testata l’un l’altro. Lui non si scalfì nemmeno, io invece persi l’equilibrio e mi ribaltai per terra.
Mi affrettai a scusarmi. Non so perché. Forse perché la divisa mi incuteva un po’ di timore. Ma avrebbe potuto farlo anche lui.

 Lo chiamarono.

– Sergente. Venga.

Niente nome.

Mi fecero spostare avanti per far passare gli altri. Lui tornò indietro e guidò la mia auto fino a superare il controllo e parcheggiò accanto a me che nel frattempo ero stata messa a sedere su una sedia con del ghiaccio sulla testa e sul ginocchio gocciolante sangue, tra le calze smagliate. L’accaduto ci aveva regalato quell’inaspettata intimità.

– Come si chiama?

Mi chiese porgendomi le chiavi della mia auto. Ma lo sapeva già il mio nome.

– Matilde. E lei?

Nessuna risposta.

S’inginocchiò di fronte a me e controllò le mie ferite. Mi accarezzò piano la fronte e finalmente dopo settimane che mendicavo il suo sguardo, i suoi occhi fissarono i miei.

– Perché non se ne va via?

Perché non me ne andavo via? Già, pareva facile. Prendere e lasciare tutto. Senza un soldo. Senza un lavoro. Senza alcun amico lontano che ti potesse ospitare.
Eh però se restavi e succedeva che morivi in uno dei mille atroci modi possibili, non era certo meglio. No. Decisamente non lo era.

– … E dove dovrei andare? … Arriverà anche qui?
– Sì.

Era stato un vero e proprio avvertimento. Un dirmi qualcosa che forse non avrebbe potuto. Ma io lo stesso non sapevo dove mai sarei potuta andare.

I giorni passarono e fummo immersi in questa coltre di ansia e incertezza.
Suonavano le sirene. Correvamo negli scantinati.
Ogni tanto arrivavano notizie da dove era la guerra. Quella vera. Quella dove qualcuno che conosci è scappato o muore o non ne sai più nulla. Eravamo un po’ tutti sgomenti. Sotto choc.

Mai avremmo potuto immaginare che una guerra, oggi, avrebbe preso posto nelle nostre vite. La guerra apparteneva al passato. Ai libri di storia o a un film, al massimo. E invece, nonostante sembrasse tutto così incredibile e assurdo, eravamo lì, e io avevo paura di tutto. Anche per il mio gatto ammaccato che si aggirava sempre più circospetto per casa.

Da qualche giorno venivo fermata più spesso. Non solo io.

La situazione era peggiorata. Mancava spesso l’acqua e riuscivo a lavarmi solo a pezzi. Mi sentivo sempre sporca e in ansia. I rumori mi atterrivano. L’umore era nero.

– Mi deve dare i suoi documenti.
– Ma sono sempre quelli i miei documenti. Passo da qui tutti i santi giorni, quattro volte al giorno. Non è che scado.

Nonostante tutto risi di me stessa e della mia acidità.

Il sergente alzò un sopracciglio e per la seconda volta in questa assurda storia, mi guardò dritta negli occhi.

– Non c’eri ieri.

Il suo darmi del tu mi sbalordì.

– No.

Riuscii a biascicare.

– Nemmeno giovedì.
– No.

Il cuore cominciò a battere velocemente e dopo tanto tempo ebbi quasi un attimo di pura euforica allegria. Non ero più abituata a sentirmi leggera ed ero come ubriaca.

– Stai meglio?
– Sì.

Non rispondevo che a monosillabi ma volevo gridare. Mi trattenni.

E poi arrivò la mazzata. Inaspettata. Brutalmente inaspettata.

– Tra 15 giorni mi trasferiscono.

Mi sentii mancare. Ecco che questa oasi di vuoto, di estraneità all’orrore, me l’avrebbero tolta. Questo miracoloso rituale, che mi permetteva di sopravvivere ogni giorno, sarebbe finito.

– Dove?

Domanda inutile e stupida. Mi fece cenno di andare. E io mi sentii salire lacrime amare e piene di rabbia.

Arrivai a casa con gli occhi arrossati e pieni di un mare salato. Salii in fretta e, visto che scorreva un leggero rigagnolo d’acqua, m’infilai sotto la doccia, nella speranza che durasse quantomeno per lavare via questa insensata frustrazione.

Il citofono suonò.

– Posso salire?

Riconobbi la voce e aprii senza dire una parola. Senza nemmeno indicare il piano. Se sa dove sto, sa pure a che piano.

Bussò e io aprii la porta, con i capelli bagnati e l’accappatoio addosso.

Arrivò anche il micio che lo fissò torvo e sbilenco.

Con mia grande meraviglia lo guardò e lo salutò sorridendo. Sorriso che era la prima volta che vedevo. I denti bianchi, erano perfettamente allineati.

– Ciao gatto.

Dal mugolio che ne seguì, compresi che anche il mio gatto si era preso, immediata, una cotta per lui.

Dal gatto passò a guardare me. Mi guardò intensamente e a lungo. Per tutte quelle volte in cui prima non l’aveva fatto.

– Posso?

Mi chiese in un sussurro e io feci solo cenno di sì. Mi aprì l’accappatoio piano, mi afferrò i fianchi e cominciò a baciarmi lungo il collo, dietro l’orecchio.

Mi accarezzò ogni centimetro di pelle. Avevamo bisogno del calore l’uno dell’altra e non smettemmo un secondo di guardarci e baciarci e sorriderci.  Disperati.

Mi svegliai con lui addosso.

– Non so nemmeno il tuo nome.

Si mise a ridere…

– Ok. Ricominciamo da capo. Ci vediamo a pranzo. Ci incontriamo ufficialmente e ci presentiamo.
– Ok.

Sembrava un ragazzo adesso. E lo era. E se ne andò baciandomi sulla fronte.

Aspettai l’ora convenuta con un’ombra nel cuore.

Avevo paura che fosse stato solo un modo facile per andarsene. E invece eccolo lì, che ancora mi sorrideva arrivando da lontano. Con gli occhi fissi su di me. 

All’improvviso non vidi né sentii più nulla. Balzai violentemente all’indietro dal mio tavolino contro il muro. I vetri si frantumarono e la polvere fu ovunque. Un tremendo boato mi rimbombava nella testa e per qualche minuto non seppi più dov’ero e cosa stavo facendo.

Mi scossero. Brandelli di carne e tutto il rosso che avevo addosso pensarono fosse il mio. Ma non era il mio sangue.

Avevo (in loop) nella testa, lui che mi guardava per la prima volta. Lui che mi accarezzava il viso, lui che mentre facevamo l’amore mi sussurrava quanto mi aveva desiderato. Lui che mi sorrideva da lontano. Lui che saltava in aria.

Qualcuno venne a chiedermi se sapessi il suo nome.

Io avevo ancora il suo odore addosso. Ma il suo nome no, non lo sapevo. E non lo avrei saputo mai.

© Testo – Lyes


N.B. L’immagine utilizzata per la copertina è stata presa dal Web, ma non siamo riusciti a risalire agli autori. Siamo a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire nonché per eventuali non volute omissioni o per errore di attribuzione. Qualora l’immaginie utilizzata in questo testo violasse eventuali diritti d’autore, si prega di darne comunicazione e sarà immediatamente rimossa.

:: editing a cura di edida.net ::

Geranei caleideoscopici

I gerani

:: di Lyes ::

Fa talmente caldo che non mi va di alzarmi nemmeno per annaffiare i miei gerani, semi-appassiti, in piena asfissia sul davanzale della finestra.

Moriranno. Pazienza. Prima o poi capita a tutti.

Aspetto il tuo arrivo dondolandomi sulla mia sedia di vimini scassata, come si usava una volta e si usa di nuovo adesso, facendo perno col piede nudo sul tavolino che mi sta davanti.

Le persiane sono abbassate a tre quarti e la luce entra a strisce polverose nella stanza, arroventata dal soffitto catramato del terrazzo sopra di me. Goccioline di sudore scorrono dentro l’incavo del seno e penso se non sia il caso di rifarsi una doccia. La terza della giornata.

Le cuffie dello smartphone ripetono questo cavolo di “contemporary drama” nelle mie orecchie, di cui comincio a capire qualcosa solo ora, dopo una trentina di puntate andate a vuoto, perché mi fa bene per imparare l’inglese “parlato” che dovrò capire per forza una volta arrivata a Houston, Texas, Usa.

Tra 72 ore esatte a partire da adesso.

La valigia è più triste di me, ancora mezza vuota e io non so quando e come avrò il coraggio di infilarci dentro il minimo sindacale per un inizio di vita altrove.

Suoni il citofono e io apro la porta facendo finta che non m’importi nulla, che non ti sto aspettando, che le mutandine che indosso non l’ho messe e tolte e poi rimesse quel paio di volte in più del necessario. Lo stesso con il vestito. Ma prima, mentre sali, ho un secondo per guardarmi allo specchio. I capelli in disordine li lego in una coda che a stento trattiene tutto, il lucidalabbra lo tolgo con il dorso della mano perché mi rende non vera, il vestito leggero che fa intravedere la forma del mio seno, forse è troppo corto?

Bussi, apro la porta e ci sei tu. Entri, mentre mi dai un bacio fugace sulla bocca, e mi porgi un vasetto di gerani. Gialli questa volta. Niente parole inutili tra di noi.

– Ciao.

– Ciao.

Appoggio il vaso accanto agli altri, ognuno di un diverso colore, ma sempre moribondi, e mi giro a guardarti mentre anche tu fai lo stesso, appoggiato al lavello della cucina, coi tuoi occhi scuri dalle ciglia lunghissime, che mi perforano l’anima.

Pieno di rimprovero e disapprovazione prendi la caraffa, la riempi d’acqua e ti metti a innaffiare le piantine che mi hai regalato, in religioso silenzio, aspettandoti un miracolo, forse, al quale io, mezza atea e mezza astiosa, non credo.

Senza che me ne renda conto, e con la strana sensazione che qualche fiore nel frattempo si sia materialmente messo a respirare di nuovo alzandosi di un impercettibile mezzo millimetro, mi sei accanto e mi sposti una ciocca di capelli dal viso. Mi prendi in braccio e mi fai sedere sul tavolo con le gambe avvinghiate a te, iniziando il nostro gioco preferito.

Cantami, o Diva, del Pelìde Achille
l’ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco
generose travolse alme d’eroi…

Piano, mi abbassi la spallina sottile del vestito nero che indosso e mi stringi il seno nudo, con le mani ruvide, esigenti, maleducate.

… e di cani e d’augelli orrido pasto
lor salme abbandonò, da quando
primamente disgiunse aspra contesa
il re de’ prodi Atride e il divo Achille…

Non riesco a continuare mentre le tue mani mi accarezzano e la mia parte mi si spezza in gola.

– Andiamo di là.

Ordini, non suggerisci. Anche qui siamo in penombra. Il buio non fa per noi. Mi guardi fisso negli occhi, mentre mi fai stendere sul letto, mi sollevi la gonna e allarghi piano le gambe. Giochi con le mie mutandine. Le sposti di lato e infili dentro le dita, lentamente. Inarco la schiena al tuo tocco, non so quanto riuscirò a resistere e mentre il desiderio che ho di te continua a salire e mi offusca la mente, secco mi chiedi:

– perché non dai acqua ai gerani?

La domanda sembra talmente seria ed è arrivata così inaspettata che scoppio a ridere tanto la risposta è banale. Ma la mia risata sembra avere uno strano effetto su di te che mi guardi ancora più serio di prima e mi entri dentro, furiosamente, con le mutandine ancora addosso.  Poi, scompariamo dal mondo.

– Vuoi che ti accompagni in aeroporto?

Io penso sia l’ultima cosa che voglio.

– Grazie. Ma no, grazie. Viene Irene.

Metto a bollire l’acqua per il tè alla menta, abitudine che ho preso anni fa, dopo un viaggio in Marocco con delle amiche, in cui tutte ci innamorammo di questa berbera usanza di rinfrescarsi col tè caldo d’estate. Mentre lo beviamo insieme, il tuo telefono squilla ma non rispondi. Dici soltanto: devo andare.

Siamo di nuovo in piedi appoggiati al lavello. Mi metto accanto a te e ti do una lieve spallata, come se fossimo i vecchi amici che non siamo mai stati e ci mettiamo a ridere. Per non metterci a piangere, come due deficienti.

Abbasso gli occhi, colmi già di una stupida nostalgia di cui mi vergogno, e mi tiri su il mento guardandomi mentre il respiro mi si affanna, nonostante cerchi di darmi una calmata. Non lo reggo il tuo sguardo, oggi più che mai, ma tu ti avvicini, mi dai un bacio leggero sulle palpebre chiuse a metà mentre le tue mani mi riempiono il volto.

Sappiamo entrambi che la distanza non fa per noi. Che non ci siamo mai telefonati per raccontarci la nostra quotidianità, nemmeno quando eravamo a 5 km l’uno dall’altra. Figurarsi a 9150 km l’uno dall’altra. Km più km meno. Consapevoli del fatto che nessun dei due si potrà presentare all’improvviso, in caso di bisogno, nel cuore della notte a casa dell’altro, per un abbraccio o un’allegra e superficiale, almeno così sembrava fino a ieri, scopata.

Non funzionerebbe.

– Rimani.

Non sembra nemmeno la tua voce. A stento riconosco la sicurezza perentoria, quasi arrogante, del timbro che fino a un secondo fa non pensavo potessi mai e poi mai perdere. C’è odore di sabotaggio nell’aria per questo cuore, ma mi sorprende il coraggio che ho:

– Non posso. Non chiederlo.

Neanche la mia, sembra la mia voce.

– Va bene.

Ti guardo andare via senza girarti nemmeno. Del resto, non lo sopporterei. Ti guardo chiudere piano la porta dietro di te, che io invece avrei sbattuto con tutta la rabbia di questo intollerabile addio.

Aspetto un minuto. Vado alla finestra e getto di sotto, uno per volta, uno dietro l’altro, dieci in tutto, i tuoi maledetti, insopportabili, vasetti di gerani, che si schiantano al suolo in un fragore di ceramica frantumata. Mille minuscoli pezzettini colorati di nulla. Fiori semi-appassiti dappertutto.

Qualcuno di sotto si lamenta: Ehiii!

– Ehi un cazzo! Sorrido amaramente.

È arrivato il momento di fare la valigia.

© Testo – Lyes
:: Editing a cura di Stefano Angelo ::

Immagine di copertina realizzata da RitaE (Pixabay licence), ritoccata da Stefano Angelo.

:: Nota: Primo racconto, con un pizzico di erotismo, della serie Codigo Rojo. Stuzzicante al punto giusto, malinconico, irrequieto. Della serie, quando fa caldo e non puoi farti un bagno…

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