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La lite

Voltiamo pagina

:: di Stefano Angelo ::

Che bella giornata per una passeggiata in questo parco. Non sono mai stato qui prima d’ora. Mi piace. Il sole, in questo momento, è caldo e mi accarezza il viso… Me lo godo e cerco di rilassarmi. Non c’è nulla che possa rovinare questa mia giornata, ne sono assolutamente certo.

Nella direzione opposta vedo una persona che si avvicina, quasi correndo. Non vedo bene da lontano e non ho voglia di mettermi gli occhiali, ma qualcosa di quella persona mi attrae…

– Ciao, come va, che sorpresa! [dico io, emozionato e confuso]
– Ciao, come stai?
– Non posso crederci! Come stai, che mi racconti?
– La verità è che ho fretta.
– Ok, capisco. Ma avrai cinque minuti per chiacchierare un po’ con un conoscente. Con un vecchio amico? Si potrebbe dire…
– Non lo so davvero. Non credo sia molto utile parlare.
– Come “non sia utile parlare”. Ma ne ho bisogno! [leggermente alterato]
– Vediamo Dante, di cosa hai bisogno?
– Come “di cosa ho bisogno”? Te ne sei andata una mattina, all’improvviso, senza lasciare traccia. Ho provato a chiamarti, a scriverti, ma niente. Sparita.
– Le cose si rompono, Dante. E le cose rotte non sempre possono essere riparate. A volte non c’è colla che tenga.
– Come “non c’è colla che tenga”. Ma se eravamo super incollati. Due anni di convivenza… e ora mi dici che non c’è colla.
– Beh no, Dante, non c’è nessuna colla. E ora, per favore, lasciami andare… i cinque minuti sono passati.
– Però che dici! Non capisci che sono ancora molto innamorato di te. Mi hai spezzato il cuore. Non mi hai lasciato nemmeno un biglietto. Ma ho bisogno, adesso, di sapere cosa è successo. Ne ho bisogno per voltare pagina, per andare avanti. Me lo devi.
– Ascolta Dante, non sono la tua Beatrice, non lo sono mai stata. E non devo niente a nessuno.
[afferrandola per il braccio] Adesso io sarei “nessuno”? Quanto sono misere le nostre vite. Per favore Bea. Aspetta, non puoi lasciarmi di nuovo così, senza alcuna spiegazione. Devo sapere, ho bisogno di sapere, che non è stata colpa mia.
– Ehi, non toccarmi o mi metto a urlare. Sono in ritardo, oggi è un giorno importante per me e c’è qualcuno che mi aspetta, capisci? E ora devo proprio andare!
– Vediamo Bea. E chi sarebbe questo “qualcuno” così importante da farti cancellare due anni di vita trascorsi insieme, come se non fosse mai successo nulla?
– Ascoltami Dante, ma ascoltami bene. Dico sul serio. Come ti ho già detto, non sono la tua Beatrice, non sono il tuo giocattolo. Mi chiamo Clara, per l’amor del cielo, Clara. Non mi hai quasi mai chiamato con il mio vero nome, non ti sei mai fatto domande, non ti sei mai fermato a pensare se quello stupido gioco mi piacesse davvero o no. Sei schiavo della tua immaginazione. Non presti mai attenzione ai dettagli. Non presti mai attenzione agli altri. Vivi dei tuoi film, costruisci le tue storie e i tuoi personaggi. Vuoi sapere la verità? Il tuo film è stato la mia gabbia. Sei così sognante e così innamorato, ma non di me, cazzo, non di me… solo dei tuoi sogni del cazzo. Capisci ora? La tua “Beatrice” non è mai esistita. La verità è che tu vivi fuori dal mondo, fuori dalla realtà.
– “Verità”, che parola ingannevole. Ma cos’è la verità, cos’è la realtà? Mi stai dicendo che una persona non ha il diritto di sognare? Ho immaginato che stessimo sognando insieme e ora mi dici che era tutta una bugia? Non riesco a sopportarlo. Non voglio sopportarlo!
– Dai Dante, smettila con le stronzate melodrammatiche e comportati da adulto, per una volta. Ho cercato in tutti i modi di darti dei segnali, di farti capire che non ero molto felice e che quello che provavo per te non era così forte. E più tu ti ossessionavi col “nostro” amore e più io volevo scappare. Ma niente. Tu avevi la tua visione e io ero ingabbiata nel tuo mondo.
– Ma cosa mi stai dicendo, come puoi pretendere che io non crolli, di nuovo. Ti ho amata. No – che dico – io ti amo, ne sono sicuro. E ora tu mi dici che ti sei spenta all’improvviso e che è stata tutta colpa mia!
– Beh, Dante. Riflettendo. Forse ti ho rispettato troppo. Forse avrei dovuto essere più diretta. Volevo lasciarti senza traumi ma non trovavo il modo, vedendoti… così innamorato, così cieco. Ma ripeto: eri innamorato del tuo amore, della tua visione, del tuo film. Non ti importava affatto di me.
– E così hai deciso di distruggermi, tutto in una volta.
– È vero, non ho avuto la forza, la capacità, di spezzare il tuo sogno prima e con delicatezza. Non avevo voglia di discutere con un muro. Mi aspettavo qualcosa da te, ma niente. Mi hai fatto impazzire. Ti guardavo e mi chiedevo come potesse esistere una persona così incapace di vedere la realtà delle cose. Alla fine, per me è stato più facile alzarmi e fuggire. Rompere le catene con un solo colpo.
– Catene, hai detto? Sei una persona egoista. Molto egoista. Non sei la mia Beatrice, come ho potuto essere così cieco.
– Cosa stai dicendo Dante. Ho resistito per te, solo per te, aspettando il tuo risveglio. Ma ho sbagliato. Dai, lasciami andare, Dante. In tutti i sensi. È tardi, troppo tardi. È inutile cercare un colpevole. E le cose rotte non possono sempre essere riparate, soprattutto in amore.

Senza sole, mi lascio cadere su una panchina. Mi stringo la testa tra le mani mentre, con la coda dell’occhio, osservo la schiena di Clara allontanarsi da me, priva di dubbi e per sempre.

© Testo – Stefano Angelo
:: Editing a cura di Stefania Angelo e Salvina Pizzuoli ::
Immagine di copertina di Viki_B (Pixabay licence), modificata.

:: Questo dialogo è la trasposizione, rivisitata, di una improvvisazione teatrale (svoltasi in una scuola di Madrid) a cui ho avuto il piacere di assistere. Insieme a “La lite” è il secondo racconto con cui cerco di esplorare il problema della incomunicabilità a livello di coppia ::

La lite

La lite

:: di Stefano Angelo ::

Seduto al tavolo, con l’avambraccio destro disteso verso una coppa di vino, battevo nervosamente il dito indice sulla base del calice. Il suono di quel battito rimbombava amplificato nella mia testa, come se volesse proteggermi, distrarmi, isolarmi, senza riuscirci, da un rumore ancora più forte.

Il mio sguardo, come era il mio sguardo? Basso, spento, fisso sul mio avambraccio. E il mio corpo? Ricurvo. Ero ricurvo su me stesso e cingevo, con la mano sinistra, l’avambraccio. Continuavo a fissare quella parte anatomica del mio corpo, senza capirne bene il motivo. Stavo scomodo, in tensione, con il peso sbilanciato sul mio fianco destro, mentre non ascoltavo lei che mi incalzava con le sue richieste. Richieste da esaurimento nervoso.

Chi diavolo mi aveva messo in quella situazione e in quel locale, in quel momento? Non avevo alibi, ero stato io con le mie stesse gambe. Una promessa è una promessa. Che frase senza senso – forse. Intanto quel rumore assordante, della voce di lei, non mi dava pace. Avrei voluto alzarmi di scatto, buttarle il vino in faccia e scappare via, sbattendo una porta. Ma non ci riuscivo. Lei continuava a vomitare parole. Io, sempre più compresso, ritirai leggermente il braccio, sollevai il capo e cercai di posizionarmi, con fatica, con il busto eretto sulla sedia. Abbandonato il calice iniziai a muovere ansiosamente la gamba destra, “urtando” ripetutamente contro il bordo della tovaglia che pendeva sulle mie ginocchia. Era come un tam tam silenzioso, che echeggiava nella mia testa.

Lei sbatté, all’improvviso, il pugno sul tavolo e mi fissò, per pochi istanti, come se volesse urlarmi in faccia “Ma mi ascolti?”. Io, ridestato dal pugno, incrociai il suo sguardo, per un palpito, mentre lei riprendeva imperterrita con i suoi rimproveri e con la veemenza di sempre.

“Ma ti pare il modo di parlare a una persona?” pensai. Poi, come in catalessi, mi rifugiai in antichi ricordi. Antichi, proprio la parola esatta. Infinitamente lontano mi sembrava l’inizio della nostra relazione… solcata da innumerevoli crisi che l’avevano frammentata in ricordi sbiaditi, così sbiaditi da non poter più distinguere i momenti buoni da quelli meno buoni, violenti, orrendi come quello che stavo, stavamo, vivendo in quell’inutile pomeriggio. Mi sentivo piccolo e nervoso, bloccato e schiacciato in un angolo della vita di lei. Non riuscivo a pensare, nel mio calice vedevo solo caos e oppressione.

Adesso, invece di scappare, avrei voluto buttarmi su di lei, afferrare il suo esile collo con le dita e stringere, stringere, stringere. Con rabbia, in silenzio, in cerca di una liberazione. Vedevo i miei pollici affondare sulla sua trachea e un mezzo sorriso affiorò sul mio volto.

Di nuovo il rumore di un pugno sul tavolo mi ridestò, di nuovo i nostri sguardi si incrociarono per un misero momento mentre lei, continuando a parlare, sembrava che mi stesse anche urlando “Ma che diavolo hai da ridere!”.

Io avrei voluto abbaiarle in faccia: “Mi sento bene solo immaginandoti morta”. Ma continuai chiuso nel silenzio e il mio accenno di sorriso si spense in un soffio. Di nuovo mi estraniai dalla discussione. Discussione è parola grossa: monologo furioso… Rimuginavo.

La vedevo, la percepivo nella mia mente come un demonio liquido, capace di insinuarsi dentro di me, di invadere il mio corpo attaccando tutti i miei organi: i timpani, gli occhi, la lingua, il cuore, il diaframma, il ventre. Con la mente seguivo il liquido e cercavo, in uno scampolo di lucidità, di capire cosa mi stesse succedendo. I miei timpani erano avvolti da un frastuono insopportabile. I miei occhi, annebbiati e leggermente socchiusi, erano in uno stato di tensione che traspariva dalle rughe della fronte. La mia lingua era schiacciata sul palato e sugli incisivi, facendomi sentire dolore e immaginare il sapore del sangue. Il cuore batteva in maniera discontinua, cercai per un attimo di afferrare invano i miei battiti irregolari. Sentivo il diaframma come paralizzato, al punto di non poter quasi respirare. Percepivo i miei addominali come un tutt’uno con i miei glutei, contratti, come se una lama partisse dal mio ventre fino ad arrivare alla base della schiena. Lì si fermò.

Il liquido si dissolse. Una sensazione di freddo improvvisa in quel punto mi provocò un violento brivido che risalì come un fulmine fino a esplodere col fragore del tuono nel mio cervello che, destatosi da quello stato di torpore, mi portò a inclinare il torace in avanti, ruotare il braccio destro dietro di me, fino a scovare con la mano l’origine di quel gelo. Sfilai con uno scatto un revolver dalla cintura dei miei pantaloni.

Adesso silenzio. Adesso che alla fine del mio avambraccio destro non vi era più una coppa di vino ma una mano tremante che impugnava una pistola, lei aveva smesso di parlare. Finalmente. Ma quel silenzio improvviso non era consolatorio. Lei mi fissava. Io no, io guardavo il mio avambraccio, la mia mano e quella pistola. Di nuovo l’avambraccio, la mano, la pistola. Al ritmo del mio respiro affannoso, ripercorrevo con lo sguardo e con la testa quel tracciato. Stavo sudando. Lei era attonita, ma non fece in tempo a spaventarsi. Io smisi di tremare e di guardare. In un lampo, vissuto al rallentatore, portai con precisione la pistola alla mia tempia e feci fuoco. L’urlo di lei si confuse col boato dello sparo e io, inclinato su un fianco, mentre iniziavo a precipitare verso il pavimento, in un tempo sospeso tra la vita e la morte, riuscii a sorridere… con un sorriso diverso e mi godetti quella caduta istante per istante. Raggiunsi il suolo: senza più rumori, senza la voce di lei in sottofondo, senza pensieri. Libero e prigioniero (al tempo stesso) di una nuova dimensione, in cui tutto sarebbe ricominciato in maniera differente – o forse no. Ma questa volta, probabilmente, avevo vinto io.

© Testo – Stefano Angelo
:: Editing a cura di Francesca Frosali ::

Un ringraziamento particolare a Cristina T., Daniela A. e all’immancabile Salvina P.

Immagine di sfondo di Viki_B (Pixabay licence)

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