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Geranei caleideoscopici

I gerani

:: di Lyes ::

Fa talmente caldo che non mi va di alzarmi nemmeno per annaffiare i miei gerani, semi-appassiti, in piena asfissia sul davanzale della finestra.

Moriranno. Pazienza. Prima o poi capita a tutti.

Aspetto il tuo arrivo dondolandomi sulla mia sedia di vimini scassata, come si usava una volta e si usa di nuovo adesso, facendo perno col piede nudo sul tavolino che mi sta davanti.

Le persiane sono abbassate a tre quarti e la luce entra a strisce polverose nella stanza, arroventata dal soffitto catramato del terrazzo sopra di me. Goccioline di sudore scorrono dentro l’incavo del seno e penso se non sia il caso di rifarsi una doccia. La terza della giornata.

Le cuffie dello smartphone ripetono questo cavolo di “contemporary drama” nelle mie orecchie, di cui comincio a capire qualcosa solo ora, dopo una trentina di puntate andate a vuoto, perché mi fa bene per imparare l’inglese “parlato” che dovrò capire per forza una volta arrivata a Houston, Texas, Usa.

Tra 72 ore esatte a partire da adesso.

La valigia è più triste di me, ancora mezza vuota e io non so quando e come avrò il coraggio di infilarci dentro il minimo sindacale per un inizio di vita altrove.

Suoni il citofono e io apro la porta facendo finta che non m’importi nulla, che non ti sto aspettando, che le mutandine che indosso non l’ho messe e tolte e poi rimesse quel paio di volte in più del necessario. Lo stesso con il vestito. Ma prima, mentre sali, ho un secondo per guardarmi allo specchio. I capelli in disordine li lego in una coda che a stento trattiene tutto, il lucidalabbra lo tolgo con il dorso della mano perché mi rende non vera, il vestito leggero che fa intravedere la forma del mio seno, forse è troppo corto?

Bussi, apro la porta e ci sei tu. Entri, mentre mi dai un bacio fugace sulla bocca, e mi porgi un vasetto di gerani. Gialli questa volta. Niente parole inutili tra di noi.

– Ciao.

– Ciao.

Appoggio il vaso accanto agli altri, ognuno di un diverso colore, ma sempre moribondi, e mi giro a guardarti mentre anche tu fai lo stesso, appoggiato al lavello della cucina, coi tuoi occhi scuri dalle ciglia lunghissime, che mi perforano l’anima.

Pieno di rimprovero e disapprovazione prendi la caraffa, la riempi d’acqua e ti metti a innaffiare le piantine che mi hai regalato, in religioso silenzio, aspettandoti un miracolo, forse, al quale io, mezza atea e mezza astiosa, non credo.

Senza che me ne renda conto, e con la strana sensazione che qualche fiore nel frattempo si sia materialmente messo a respirare di nuovo alzandosi di un impercettibile mezzo millimetro, mi sei accanto e mi sposti una ciocca di capelli dal viso. Mi prendi in braccio e mi fai sedere sul tavolo con le gambe avvinghiate a te, iniziando il nostro gioco preferito.

Cantami, o Diva, del Pelìde Achille
l’ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco
generose travolse alme d’eroi…

Piano, mi abbassi la spallina sottile del vestito nero che indosso e mi stringi il seno nudo, con le mani ruvide, esigenti, maleducate.

… e di cani e d’augelli orrido pasto
lor salme abbandonò, da quando
primamente disgiunse aspra contesa
il re de’ prodi Atride e il divo Achille…

Non riesco a continuare mentre le tue mani mi accarezzano e la mia parte mi si spezza in gola.

– Andiamo di là.

Ordini, non suggerisci. Anche qui siamo in penombra. Il buio non fa per noi. Mi guardi fisso negli occhi, mentre mi fai stendere sul letto, mi sollevi la gonna e allarghi piano le gambe. Giochi con le mie mutandine. Le sposti di lato e infili dentro le dita, lentamente. Inarco la schiena al tuo tocco, non so quanto riuscirò a resistere e mentre il desiderio che ho di te continua a salire e mi offusca la mente, secco mi chiedi:

– perché non dai acqua ai gerani?

La domanda sembra talmente seria ed è arrivata così inaspettata che scoppio a ridere tanto la risposta è banale. Ma la mia risata sembra avere uno strano effetto su di te che mi guardi ancora più serio di prima e mi entri dentro, furiosamente, con le mutandine ancora addosso.  Poi, scompariamo dal mondo.

– Vuoi che ti accompagni in aeroporto?

Io penso sia l’ultima cosa che voglio.

– Grazie. Ma no, grazie. Viene Irene.

Metto a bollire l’acqua per il tè alla menta, abitudine che ho preso anni fa, dopo un viaggio in Marocco con delle amiche, in cui tutte ci innamorammo di questa berbera usanza di rinfrescarsi col tè caldo d’estate. Mentre lo beviamo insieme, il tuo telefono squilla ma non rispondi. Dici soltanto: devo andare.

Siamo di nuovo in piedi appoggiati al lavello. Mi metto accanto a te e ti do una lieve spallata, come se fossimo i vecchi amici che non siamo mai stati e ci mettiamo a ridere. Per non metterci a piangere, come due deficienti.

Abbasso gli occhi, colmi già di una stupida nostalgia di cui mi vergogno, e mi tiri su il mento guardandomi mentre il respiro mi si affanna, nonostante cerchi di darmi una calmata. Non lo reggo il tuo sguardo, oggi più che mai, ma tu ti avvicini, mi dai un bacio leggero sulle palpebre chiuse a metà mentre le tue mani mi riempiono il volto.

Sappiamo entrambi che la distanza non fa per noi. Che non ci siamo mai telefonati per raccontarci la nostra quotidianità, nemmeno quando eravamo a 5 km l’uno dall’altra. Figurarsi a 9150 km l’uno dall’altra. Km più km meno. Consapevoli del fatto che nessun dei due si potrà presentare all’improvviso, in caso di bisogno, nel cuore della notte a casa dell’altro, per un abbraccio o un’allegra e superficiale, almeno così sembrava fino a ieri, scopata.

Non funzionerebbe.

– Rimani.

Non sembra nemmeno la tua voce. A stento riconosco la sicurezza perentoria, quasi arrogante, del timbro che fino a un secondo fa non pensavo potessi mai e poi mai perdere. C’è odore di sabotaggio nell’aria per questo cuore, ma mi sorprende il coraggio che ho:

– Non posso. Non chiederlo.

Neanche la mia, sembra la mia voce.

– Va bene.

Ti guardo andare via senza girarti nemmeno. Del resto, non lo sopporterei. Ti guardo chiudere piano la porta dietro di te, che io invece avrei sbattuto con tutta la rabbia di questo intollerabile addio.

Aspetto un minuto. Vado alla finestra e getto di sotto, uno per volta, uno dietro l’altro, dieci in tutto, i tuoi maledetti, insopportabili, vasetti di gerani, che si schiantano al suolo in un fragore di ceramica frantumata. Mille minuscoli pezzettini colorati di nulla. Fiori semi-appassiti dappertutto.

Qualcuno di sotto si lamenta: Ehiii!

– Ehi un cazzo! Sorrido amaramente.

È arrivato il momento di fare la valigia.

© Testo – Lyes
:: Editing a cura di Stefano Angelo ::

Immagine di copertina realizzata da RitaE (Pixabay licence), ritoccata da Stefano Angelo.

:: Nota: Primo racconto, con un pizzico di erotismo, della serie Codigo Rojo. Stuzzicante al punto giusto, malinconico, irrequieto. Della serie, quando fa caldo e non puoi farti un bagno…

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