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Donna con il fucile - foto di Martin Kollar (modificata)

Il vuoto nella canna

:: di Stefano Angelo ::

Fish and chips

Mi ritrovo seduta al tavolo di un fish and chips, tenendo tra le mani una tazza di tè irlandese per cercare di incontrare un po’ di calore.

Dall’altro lato del tavolo non c’è nessuno. Solo un oggetto inconsueto appoggiato in bella vista, come fosse l’arnese più banale del mondo. Invece no. Si tratta di un fucile. Forse un fucile da caccia, di quelli a otturatore girevole. Così mi hanno detto.

Ho una sensazione di disagio, di nausea e una rabbia celata da uno sguardo perso nel vuoto.

Dopo un po’, fisso il fucile. Lo avevo trovato sulla soglia di casa qualche giorno prima. Lasciato da chi? Da mio fratello…

Intanto rimugino sulla cosa che mi aveva irritata di più: non era quell’arma, apparentemente più ossidata di me, ma il biglietto che l’accompagnava e che non ho ancora avuto il coraggio di strappare.

Il calore della tazza inizia finalmente a sortire qualche effetto mentre un’accozzaglia di pensieri intasano il mio cervello. Io non vorrei uccidere lui, mio fratello, con quel fucile ossidato e carico del mio dolore. Ma suo figlio, mio nipote. Un ragazzo (fastidiosamente) perfetto, (apparentemente) adorabile, con tanta gioia di vivere; dicono. Non so se lo amo, almeno un po’. Ma so che odio mio fratello. Alla follia. Il nipote sarà la mia lama, la mia vendetta. Che deliri…
Intanto medito sul dopo. Sulla sofferenza inflitta a mio fratello. Sulle sue lacrime. Sul suo sudore. Sul vuoto. Suo. Mio. Di entrambi.
In alcuni momenti immagino lo sparo, l’odore della polvere, il rumore assordante. Un fischio nella testa mi disturba. Resto attonita. Penso alla vita interrotta. Ma è un lampo. Poi ripenso a mio fratello. A quanto lo odio, a come lo odio e a quanto soffrirà con me.

Penso alla mia vita bruciata. Penso a mio padre, che se ne è andato molto prima, sfuggendo alla mia croce.

Penso alla mia casa. A come era prima che si ammalasse mamma. A come era durante la malattia, con un letto in cui era apparsa una crocifissa, con le scatole di medicine sparse ovunque. Penso al disordine, agli odori. Penso alla routine a cui ero costretta, ai tempi scanditi da esigenze non mie, alle inutili visite dei dottori.

Penso a me, al figlio che avrei potuto avere… mi si annebbia la vista. Resto catatonica, per diversi istanti.

Una voce un po’ stridula mi ridesta dal mio torpore. È la cameriera che mi chiede se voglio qualcosa da mangiare. Un cheesecake, rispondo meccanicamente. In fondo non ho nemmeno fame. In fondo ho le budella attorcigliate. Nell’attesa piombo di nuovo nel mio passato…

* * *

Passeggiate

Le mie giornate erano tutte uguali, da sette anni oramai. La casa era sempre più vuota e sporca, dopo la morte di mio padre. Il giardino era uno schifo. Le erbacce invadevano in maniera arrogante i miei spazi. Tutti i colori intorno a me erano sbiaditi. Anche io ero sbiadita. I miei occhi guardavano in maniera sfuggente la mia immagine nello specchio. Non ero più io? No, non ero più io.

A trentotto anni avevo dovuto lasciare il mio lavoro per occuparmi “meglio” di mia madre. Il mio lavoro di maestra mi piaceva, forse. Già non lo ricordo più. Ma almeno, al mattino, prima di uscire di casa mi lavavo, mi vestivo in maniera pensata. Ero decorosa e rispettata. 
Pochi alunni in quella cittadina persa nella polvere, avevano un futuro incerto ma questa consapevolezza non mi demotivava. Alcuni bambini, con le loro famiglie, se ne erano già andati, la vita nei campi era dura e la fabbrica di armi della città vicina era una promessa.

I negozi lì luccicavano. Le vetrine erano colme… Ci andavo spesso e mi piaceva vedere il mio riflesso per niente sbiadito in quelle vetrine. Mi piaceva proprio andare in quella città. Era una promessa anche per me.
Lì viveva un avvocato di origine russa. Si era trasferito nella Città delle armi (così la chiamavo) dopo la Grande Guerra. Si chiamava Nikolay Melnikov. Melnikov significa mugnaio, ma ero l’unica a saperlo in quella città. Era serio, imponente. La sua mole un po’ intimidiva. Era abile, molto abile. Aveva fatto amicizia con il sindaco e aveva già molti clienti. Nella Città delle armi si scatenavano diverse dispute. In altri tempi non ci sarebbe stato bisogno di un avvocato, pensavo. Oggi sì.
Con Nikolay passeggiavamo spesso per le strade della Città delle armi, perfettamente asfaltate, perfettamente illuminate, soprattutto nei giorni di festa. Passeggiavamo sfiorandoci spesso, senza mai toccarci in maniera evidente. Era prematuro. Eravamo due persone rispettate. Con un ruolo, un obiettivo, un senso. Ma i dorsi delle nostre mani si cercavano e si incontravano. Complici. E bastava questo per farmi stare bene.

* * *

Il giardino

Grande Guerra a volte ripetevo nella mia testa. Cosa avrà mai di grande una guerra. Io ero mite, a quel tempo. Coltivavo il mio giardino con precisione maniacale. Nessun cespuglio invadeva l’area del vicino. Io non invadevo l’area di nessuno. Ero riservata. Il mio sguardo non era ancora schivo. Scrutavo in maniera discreta le cose e le persone. Pensavo di capirle ma preferivo gli animali. Avrei voluto un laghetto con dei pesci. Non sapevo ancora che tipo di pesci. Piccoli, silenziosi, non invadenti. Ne avevo parlato timidamente con mio padre. Ancora mi metteva soggezione. Parlava poco, meno degli altri reduci. Spesso era assente. Non avrò mai lo sguardo come il suo, pensavo.

* * *

La prigione

Le mie giornate trascorrevano serene. La mia routine lavorativa mi piaceva.
Ma ultimamente mi piacevano di più le passeggiate nella Città delle armi. Lui non veniva mai qui. A lui non piacevano le strade polverose. A lui piacevano le camicie ben stirate, le cravatte e aveva una passione smodata per le bombette. Adorava quei cappelli… e io adoravo lui. Ma poi, tutto cambiò. Quando mamma si ammalò il mio tempo libero si sfumò. I primi tempi della malattia passavo i pomeriggi nei centri medici e nelle farmacie. I fine settimana, invece di andare a trovare Nikolay, provavo a scrivergli delle lettere. Non sempre ci riuscivo. Lui i primi tempi mi rispondeva, poi meno, poi in maniera distratta. Mio fratello, sfuggente, quasi mai mi concedeva un fine settimana di riposo. Lui aveva la sua famiglia, il suo lavoro.

In uno di questi fine settimana “liberi” riuscii ad andare da Nikolay. Notai subito, dal suo sguardo, che qualcosa era cambiato. Era rigido, forse per nascondere il suo imbarazzo. Provai ad avvicinarmi a lui e percepii un odore estraneo, un profumo di donna appiccicato sulla sua camicia. Ricordo un brivido e la sensazione di un pugno nello stomaco. Ancora, però, conservavo il mio orgoglio. Tornai a casa senza batter ciglio. Ancora il mondo non mi era caduto addosso e mantenevo viva la speranza di una riscossa. Mi sbagliavo.

La malattia di mia madre peggiorò. Nel giro di poco non fu più capace di alzarsi dal suo letto. Mio fratello, con un sorrisetto difficilmente interpretabile, appoggiò subito l’idea di mio padre: dovevo lasciare il mio lavoro. Ero l’unica che poteva occuparsi di mamma. Io, solo io. Il mio senso del dovere, verso la mia famiglia, mi impedì di vedere le conseguenze e diedi le dimissioni. L’adrenalina si alternava alla frustrazione. Poi i sensi di colpa, anche verso i miei pochi alunni, ma prima viene la famiglia, mi dicevo.

* * *

Il fantasma

Dopo alcuni mesi mio padre morì, in maniera silenziosa, senza preavviso, durante una notte un po’ afosa. Gli ultimi anni con lui non erano stati di certo piacevoli ma nemmeno spiacevoli. Semplicemente era assente. Si affacciava di tanto in tanto da uno stipite della porta della stanza in cui viveva mia madre, senza mai entrare, senza mai parlare. La guardava per qualche istante per poi sparire nel buio del corridoio. Non lo notavi arrivare e non lo notavi andare via. Percepivo a volte il suo sguardo ma ormai non mi giravo più verso di lui, per invitarlo a entrare. Vagava per casa. Ultimamente non usciva nemmeno più in giardino. A volte gli portavo da mangiare in stanza, quando non si presentava spontaneamente a tavola all’ora abituale. Quasi lo preferivo. Stare a tavola con un fantasma, che nemmeno ti guarda, mi metteva a disagio. Stringevo forte le posate, ma non avevo il coraggio di rivolgergli la parola. Ero stufa di non ricevere risposte. Da un lato lo compiangevo per i traumi subiti in guerra, dall’altro lo odiavo per la sua rinuncia alla vita. Possibile che nella nostra casa non avesse trovato nessun conforto? Nessun motivo per reagire? Per riprendere a vivere? Almeno un po’.
Così dopo la sua morte non dico che mi sentissi sollevata, ma nemmeno affranta.
E poi c’era ancora mia madre. Dovevo ancora pensare a mia madre.

* * *

La morte

La morte di mia madre arrivò cinque anni dopo quella di mio padre. Una morte diversa. Tra spasmi e lamenti. Bava e rantoli. Alla fine la sua faccia rimase quasi pietrificata in una smorfia di dolore. Non ebbi, alla prima, il coraggio di pulire e ricomporre il suo viso. Non volevo più toccarla. Dopo che per anni mi ero occupata di lei, di tutto il suo corpo. La parte più profonda di me non ne poteva più, malgrado l’amore.
Era finita, ma ero finita anche io. Libera? Di fare cosa? Mi sentivo come un recluso che dopo trent’anni viene sbattuto fuori dalla prigione. Il trauma di uscire, da una tua prigione, a volte è più duro di quello che hai provato al momento di entrare… Con un dolore si può imparare a convivere, ti puoi convincere della sua “necessarietà”. Ma quando te lo tolgono all’improvviso? Che fai? Hai le forze per reagire? Per tornare a vivere? In quel momento vedevo, capivo, mio padre… ma la cosa per nulla mi allietava.

* * *

Il testamento

Qualche settimana dopo venni convocata insieme a mio fratello dal notaio. Ero distrutta, logora e non solo per il dolore. Mio fratello aveva sempre quel sorrisetto un po’ impertinente. Mi dava fastidio anche il suo modo di “darmi coraggio”, come se la donna morta da poco non fosse anche sua madre. Ma c’era qualcos’altro, anche se ancora non riuscivo a capire.
Il notaio, in maniera solenne, iniziò il suo rito, dopo averci spiegato alcuni dettagli sulla procedura. Prese un elegante tagliacarte, d’argento, con un manico ricco di incisioni e iniziò ad aprire la busta. I suoi movimenti erano lenti, troppo lenti. Io non vedevo l’ora di fuggire via da quella stanza e di rinchiudermi nuovamente nella “mia” casa.
Finalmente, dopo aver disteso il contenuto del plico sulla sua scrivania, il notaio diede inizio alla lettura. Ascoltavo e non ascoltavo. Ero in uno stato di torpore. Pensavo fosse una pura formalità e continuavo a sentire forte l’impulso di andar via. Il mio disagio nel “mondo esteriore” era già marcato. A fatica mi ero ricomposta e vestita in maniera decente per l’occasione. Mio fratello era impeccabile come sempre e stranamente rilassato. Ecco ci siamo, il notaio stava per concludere ma la frase finale mi diede un sussulto.
La maggior parte dell’eredità andava a mio fratello. A me restava solo la parte legittima. Ma come? Dopo anni di sacrificio, nemmeno il “diritto” all’equità!
Cercai di balbettare qualcosa. Ma non avevo nemmeno la forza per protestare. E poi, cosa mai avrei potuto dire o fare rispetto alla volontà, presunta, di mia madre. Pensai per pochi istanti a Nikolay, avrei tanto voluto un braccio, in quel momento, su cui appoggiarmi. Mi alzai, invece, barcollante con le mie poche forze e mi trascinai senza fiatare verso l’uscita.

* * *

Fish and chips (parte seconda)

Mi ritrovo adesso nel fish and chips, con quel fucile e con quel biglietto. Con una gran voglia di piangere ma non ho più lacrime da spargere per nessuno, nemmeno per me. Sul biglietto, scritto a mano, una sola parola: sparati. Come se la mia vita fosse già finita e priva di valore. Sarà anche così, ma che sia un’altra persona a ricordarmelo e a propormi una “soluzione” mi manda fuori di cervello.
Sul dorso del biglietto una seconda opzione: quel cane di mio fratello, pieno del suo ego e del suo egoismo, mi invita a lasciargli la mia parte di casa il prima possibile, in cambio di una modesta cifra. Ma io non sono obbligata a vendergli la mia parte. Ma che diamine deve farsene di un’altra casa! Lui già ha la sua, comprata in parte con i soldi di mio padre, di nostro padre. La sua avidità mi lascia sbalordita. Come avrà fatto a convincere mia madre. Forse con la bella faccia del nipote?

Poco dopo la morte di mio padre, avevamo convenuto che l’eredità di mia madre sarebbe stata divisa equamente e che con i miei risparmi avrei poi potuto comprare la parte della casa di mio fratello. Insomma, la casa sarebbe toccata a me. Quando mio fratello fece firmare a mia madre il testamento e lo portò dal notaio io mi fidai. Pensavo ingenuamente di conoscerne il contenuto. Perché mi fidai?

Una parte di me ribolle di rabbia, come un magma represso e compresso nelle mie viscere. Ma sono ormai troppi gli strati di apatia da attraversare. Così mi ritrovo seduta da sola, in compagnia di un oggetto estraneo, a questo tavolo, con le mani intiepidite da una tazza di tè e con lo sguardo perso nel vuoto, nascosta da inutili strati di fard appiccicati sul mio volto in maniera distratta. Mi ritrovo aspettando… senza sapere esattamente cosa.

[come potrebbe continuare la storia? O va bene così? Ci sto pensando, lavori in corso]

© Testo – Stefano Angelo
:: Editing a cura di Salvina Pizzuoli ::
Immagine di copertina di Martin Kollar, modificata.

:: Nota: Questo racconto, ispirato da una foto (di Martin Kollar) mostrataci da Mattia Grigolo durante un suo corso di scrittura creativa del 2019 (organizzato da ItaliaAltrove Francoforte), è un frammento di una raccolta – I racconti della donna con il fucile – che avrebbe dovuto dare vita a una pubblicazione cartacea. Purtroppo, causa COVID e impedimenti vari, il progetto si è arenato. Di tanto in tanto pubblicheremo alcuni di questi frammenti per rievocare un’esperienza, quella del corso, che ha comunque dato il “la” a nuove avventure su questo blog ::

Teschio e clessidra, storia di un suicidio

Quei quattro minuti

:: di Daniela Alibrandi ::

C’era qualcosa che lo infastidiva, ma non riusciva ancora a capire cosa fosse. Si era svegliato presto, e provava un forte senso di nausea. Aveva preso lui la telefonata il giorno precedente e non immaginava che quell’intervento per un probabile suicidio sarebbe stata un’esperienza tanto coinvolgente. Come capo della squadra omicidi aveva sorriso della coincidenza che in quel momento fosse lui l’unico a poter intervenire.

Prese due agenti, raccomandando loro di portare un taccuino e una penna. Si fermò anche per strada a prendere un caffè, come se in fondo non ci fosse poi così tanta fretta. La zona era poco fuori Roma, uno di quei quartieri nati per scommessa, con l’inganno delle cooperative edilizie, che facevano lievitare i costi delle abitazioni scelte su piantine cartacee, intercettando il sogno di chi la casa dove abitare credeva di poterla possedere a un costo sostenibile. Ora, a distanza di tempo, le palazzine erano state costruite, ma molti acquirenti si erano trovati nella spiacevole situazione di dover rivendere le quote.
C’era il sole mentre entrava, insieme ai due agenti, nel giardino condominiale decoroso e pulito. Lui era stato colpito dal nulla che regnava attorno a quel quartiere, senza un supermercato nelle vicinanze o una farmacia, una scuola, persino privo di strade asfaltate.

Ora, mentre ripercorreva gli avvenimenti per individuare ciò che l’aveva turbato, si chiedeva se fosse stato quel senso di isolamento oppure il profumo intenso degli oleandri appena fioriti, confuso con l’immobile carezza della mortalità.

“È al terzo piano!” gli gridò un uomo affacciato al parapetto delle scale. Sul pianerottolo alcuni vicini guardavano sgomenti la porta socchiusa, gli sguardi increduli, un’ombra colpevole dipinta sui loro volti.
“Prendi le loro generalità e chiedi se hanno dichiarazioni da fare” disse il commissario a uno dei suoi “e tu invece vieni dentro con me” intimò all’altro.
Entrò in quell’appartamento e pensò che non fosse ancora abitato, tanto era spoglio. Passò davanti a una stanza dove c’era un materassino gonfiabile in terra su cui era disteso un sacco a pelo. Intravide un balcone con alcuni vasi i cui fiori erano appassiti da tempo. In lontananza le cupole del centro romano, così vicino in linea d’aria e così lontano dalle necessità di quei cittadini. In cucina trovò un tavolino da campeggio con un fornello a gas. Aprì il bagno, spoglio come il resto della casa, solo un rasoio e uno spazzolino da denti erano abbandonati sul bordo del lavabo. Era un ambiente senza storia. Si diresse quindi verso la porta di quella che doveva essere la sala da pranzo.
Vide dei piedi, scalzi… poi l’uomo, che pendeva impiccato a una fune. In terra, rovesciata, vi era una sedia, l’unica presente in quell’abitazione. Il commissario guardò il cadavere e vide in esso qualcosa di diverso. Da sempre era a contatto con la morte, c’era abituato, e aveva maturato l’idea che ci fosse alla fine una sola verità: tutti dobbiamo morire. Sentì però per quell’uomo un rispetto tale che gli fece abbassare lo sguardo. Le sue mani lunghe e affusolate potevano essere quelle di un pianista, notò le unghie pulite e curate. Indossava una camicia chiara e un gilè grigio, come grigi erano i suoi pantaloni. Gli occhi serrati, il volto chiuso in un’espressione ermetica, come di uno che non ha nulla da dire in sua discolpa. Era morto da qualche ora, ma le sue membra non erano rigide, poteva sembrare ancora vivo, come un attore che stesse recitando bene la sua parte.
<< Cosa ti stai portando nella tomba?>> pensò il commissario sapendo che non avrebbe desiderato udire la risposta.
Lo guardò ancora per qualche istante, un martire il cui destino si era finalmente compiuto.

Di fronte a quei capelli mossi e un po’ lunghi, a quelle ciglia ben disegnate, sentì quasi la necessità di accarezzarlo, di alleviare quel dolore che poteva immaginare.

Entrò l’agente che aveva lasciato fuori a prendere informazioni.
“Cosa sei riuscito a sapere?” L’uomo ripose il taccuino nella tasca.
“Ho capito solamente una cosa commissa’, che si sentono tutti colpevoli!”
“Antonio, ma che stai dicendo?”
“Sono tutti concordi nel dire che era una gran brava persona ma che aveva avuto un forte esaurimento nervoso, per la perdita del lavoro. Era dimagrito e spesso sentivano delle liti provenire dall’appartamento. La moglie alla fine l’ha lasciato – dotto’ –, tornando dai suoi e portandosi via i due figli, due maschietti, che però erano con il padre ogni quindici giorni, ma solo per poche ore. Raccontano che lui pian piano ha svenduto tutto ciò che possedeva e ultimamente si vergognava a far venire i bambini in casa. Quindi quando erano con lui li portava al cinema e a mangiare una pizza e poi li riconsegnava alla madre. La vicina proprio ieri gli aveva richiesto i cento euro che gli aveva prestato quindici giorni fa, per portare i bambini al circo. La poveretta non si dà pace, dice che non glieli avrebbe mai chiesti se non avesse avuto necessità di fare lei stessa degli accertamenti clinici, per i quali il ticket era costoso.”

Il commissario riprese a guardare il cadavere, ora riusciva a non abbassare lo sguardo.

“Vai avanti…” disse all’agente.
“L’inquilino del piano di sotto aveva notato la vendita dei mobili, perfino del televisore a colori e gli aveva prestato una vecchia TV in bianco e nero, ma poi si era lamentato con lui perché di sera teneva il volume troppo alto e l’apparecchio gracchiava, con un suono metallico. Dice.”

Pensandoci bene non era stato il resoconto dell’agente ad avergli fatto provare il disagio che stava sentendo adesso, appena sveglio.

“Chi ha trovato il corpo?”
“Sembra che l’ex moglie dopo avergli telefonato più volte per sapere quando lasciargli i bambini, non avendo ricevuto risposta, abbia chiamato il dirimpettaio, per chiedergli di suonare alla porta. Il vicino però ha trovato l’uscio socchiuso ed è entrato per vedere cosa fosse accaduto.”

Il telefono. Il commissario ricordò di aver fatto caso all’apparecchio telefonico poggiato in terra in un angolo della sala da pranzo. Nel frattempo era entrato il medico legale. Il suicidio doveva essere avvenuto attorno alle nove di quella mattina, minuto più, minuto meno. Mentre gli operatori della scientifica facevano i loro rilievi, il commissario si era avvicinato al telefono, dove lampeggiava il numero tre. Tre messaggi. Aveva premuto il tasto. Le prime due erano chiamate mute, probabilmente quelle della ex moglie.
La terza era quella interessante, ed era stata fatta alle 9.04:
“Buongiorno, le telefono dall’ufficio del personale della Ditta F. dove ha inviato il suo curriculum due mesi fa. Vorremmo convocarla per domani mattina alle otto, per valutare una proposta di lavoro, vista la sua esperienza nel settore. Se non potrà venire o se sta già lavorando, la preghiamo di avvertirci, grazie e buona giornata”.

Ecco ciò che il commissario aveva avvertito come un fastidio fisico, uno schiaffo ricevuto in pieno viso o un colpo di coltello inferto in profondità.

“È morto sul colpo?” chiese al medico legale.
“Purtroppo temo che abbia avuto diversi minuti per rendersi conto che stava morendo. Il cappio non era fatto a regola d’arte. Sa com’è, non ci insegna nessuno il modo migliore per morire impiccati!”
Il commissario iniziò a immaginare l’uomo, il suo travaglio nel decidere, la sua disperazione nel sentire le chiamate della moglie, la vergogna nel dover ammettere che non aveva nulla più da offrire ai propri figli. Lo vide lasciare la porta socchiusa per agevolare chi l’avrebbe rinvenuto, salire su quella sedia e poi, mentre agonizzava, ascoltare il messaggio che avrebbe potuto salvare la sua vita, forse addirittura il suo matrimonio. Vide gli occhi dell’uomo iniettati di sangue guardare attorno disperati, immaginando che forse quelle mura avrebbero potuto rinascere. Nuovi mobili, le grida dei bambini che si rincorrevano per la casa, un futuro.
Le gambe tese dovevano aver cercato di raggiungere la sedia, pochi centimetri li separavano, pochi centimetri per risalirci sopra e liberarsi dalla corda. Pochi centimetri per ricominciare. Una piccola distanza insormontabile. Anche il commissario, in quel momento, provava un forte senso di colpa, proprio come chi aveva visto il rapido declino di quell’uomo e non aveva fatto nulla. Era dovuto uscire in fretta da quella realtà, si era sentito mancare l’aria.

Solo ora capiva perché non aveva dormito bene e si era svegliato prima dell’alba. La chiave di tutto era “fare presto”. Lui stesso avrebbe dovuto “fare presto”, tutto si sarebbe dovuto mettere in moto prima che fosse troppo tardi. Il mondo invece aveva perso tempo, si era messo in moto con quattro minuti di ritardo. Le lancette non potevano più essere spostate e il commissario era andato via con il suono di quella maledetta telefonata persa nello stomaco.

© Testo – Daniela Alibrandi

Immagine di copertina realizzata grazie alla foto di JL G e alla foto di chenspec da Pixabay

Questo racconto, che indaga cosa c’è dietro una notizia di cronaca, ha vinto il premio letterario nazionale “Mani in Volo”. La premiazione si è svolta a Vicenza il 27 settembre 2014. Successivamente è stato pubblicato nella raccolta relativa al concorso, nell’antologia “I doni della mente”, dal settimanale “L’Ortica del Venerdì” e in un mensile della Rai. Nel 2021, per gentile concessione dell’autrice, viene ripubblicato nel blog stefanoangelo.it in una nuova edizione, in vista della realizzazione di un audiolibro di racconti brevi.

Della stessa autrice:
Una morte sola non basta (Del Vecchio Editore, 2016) 
I misteri del vaso etrusco (Edizioni Universo, 2019)
Delitti fuori orario (Ianieri Edizioni, 2020)
Viaggio a Vienna (Morellini Editore, 2020)

Per ulteriori informazioni sull’autrice, clicca QUI


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