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La lite

La lite

:: di Stefano Angelo ::

Seduto al tavolo, con l’avambraccio destro disteso verso una coppa di vino, battevo nervosamente il dito indice sulla base del calice. Il suono di quel battito rimbombava amplificato nella mia testa, come se volesse proteggermi, distrarmi, isolarmi, senza riuscirci, da un rumore ancora più forte.

Il mio sguardo, come era il mio sguardo? Basso, spento, fisso sul mio avambraccio. E il mio corpo? Ricurvo. Ero ricurvo su me stesso e cingevo, con la mano sinistra, l’avambraccio. Continuavo a fissare quella parte anatomica del mio corpo, senza capirne bene il motivo. Stavo scomodo, in tensione, con il peso sbilanciato sul mio fianco destro, mentre non ascoltavo lei che mi incalzava con le sue richieste. Richieste da esaurimento nervoso.

Chi diavolo mi aveva messo in quella situazione e in quel locale, in quel momento? Non avevo alibi, ero stato io con le mie stesse gambe. Una promessa è una promessa. Che frase senza senso – forse. Intanto quel rumore assordante, della voce di lei, non mi dava pace. Avrei voluto alzarmi di scatto, buttarle il vino in faccia e scappare via, sbattendo una porta. Ma non ci riuscivo. Lei continuava a vomitare parole. Io, sempre più compresso, ritirai leggermente il braccio, sollevai il capo e cercai di posizionarmi, con fatica, con il busto eretto sulla sedia. Abbandonato il calice iniziai a muovere ansiosamente la gamba destra, “urtando” ripetutamente contro il bordo della tovaglia che pendeva sulle mie ginocchia. Era come un tam tam silenzioso, che echeggiava nella mia testa.

Lei sbatté, all’improvviso, il pugno sul tavolo e mi fissò, per pochi istanti, come se volesse urlarmi in faccia “Ma mi ascolti?”. Io, ridestato dal pugno, incrociai il suo sguardo, per un palpito, mentre lei riprendeva imperterrita con i suoi rimproveri e con la veemenza di sempre.

“Ma ti pare il modo di parlare a una persona?” pensai. Poi, come in catalessi, mi rifugiai in antichi ricordi. Antichi, proprio la parola esatta. Infinitamente lontano mi sembrava l’inizio della nostra relazione… solcata da innumerevoli crisi che l’avevano frammentata in ricordi sbiaditi, così sbiaditi da non poter più distinguere i momenti buoni da quelli meno buoni, violenti, orrendi come quello che stavo, stavamo, vivendo in quell’inutile pomeriggio. Mi sentivo piccolo e nervoso, bloccato e schiacciato in un angolo della vita di lei. Non riuscivo a pensare, nel mio calice vedevo solo caos e oppressione.

Adesso, invece di scappare, avrei voluto buttarmi su di lei, afferrare il suo esile collo con le dita e stringere, stringere, stringere. Con rabbia, in silenzio, in cerca di una liberazione. Vedevo i miei pollici affondare sulla sua trachea e un mezzo sorriso affiorò sul mio volto.

Di nuovo il rumore di un pugno sul tavolo mi ridestò, di nuovo i nostri sguardi si incrociarono per un misero momento mentre lei, continuando a parlare, sembrava che mi stesse anche urlando “Ma che diavolo hai da ridere!”.

Io avrei voluto abbaiarle in faccia: “Mi sento bene solo immaginandoti morta”. Ma continuai chiuso nel silenzio e il mio accenno di sorriso si spense in un soffio. Di nuovo mi estraniai dalla discussione. Discussione è parola grossa: monologo furioso… Rimuginavo.

La vedevo, la percepivo nella mia mente come un demonio liquido, capace di insinuarsi dentro di me, di invadere il mio corpo attaccando tutti i miei organi: i timpani, gli occhi, la lingua, il cuore, il diaframma, il ventre. Con la mente seguivo il liquido e cercavo, in uno scampolo di lucidità, di capire cosa mi stesse succedendo. I miei timpani erano avvolti da un frastuono insopportabile. I miei occhi, annebbiati e leggermente socchiusi, erano in uno stato di tensione che traspariva dalle rughe della fronte. La mia lingua era schiacciata sul palato e sugli incisivi, facendomi sentire dolore e immaginare il sapore del sangue. Il cuore batteva in maniera discontinua, cercai per un attimo di afferrare invano i miei battiti irregolari. Sentivo il diaframma come paralizzato, al punto di non poter quasi respirare. Percepivo i miei addominali come un tutt’uno con i miei glutei, contratti, come se una lama partisse dal mio ventre fino ad arrivare alla base della schiena. Lì si fermò.

Il liquido si dissolse. Una sensazione di freddo improvvisa in quel punto mi provocò un violento brivido che risalì come un fulmine fino a esplodere col fragore del tuono nel mio cervello che, destatosi da quello stato di torpore, mi portò a inclinare il torace in avanti, ruotare il braccio destro dietro di me, fino a scovare con la mano l’origine di quel gelo. Sfilai con uno scatto un revolver dalla cintura dei miei pantaloni.

Adesso silenzio. Adesso che alla fine del mio avambraccio destro non vi era più una coppa di vino ma una mano tremante che impugnava una pistola, lei aveva smesso di parlare. Finalmente. Ma quel silenzio improvviso non era consolatorio. Lei mi fissava. Io no, io guardavo il mio avambraccio, la mia mano e quella pistola. Di nuovo l’avambraccio, la mano, la pistola. Al ritmo del mio respiro affannoso, ripercorrevo con lo sguardo e con la testa quel tracciato. Stavo sudando. Lei era attonita, ma non fece in tempo a spaventarsi. Io smisi di tremare e di guardare. In un lampo, vissuto al rallentatore, portai con precisione la pistola alla mia tempia e feci fuoco. L’urlo di lei si confuse col boato dello sparo e io, inclinato su un fianco, mentre iniziavo a precipitare verso il pavimento, in un tempo sospeso tra la vita e la morte, riuscii a sorridere… con un sorriso diverso e mi godetti quella caduta istante per istante. Raggiunsi il suolo: senza più rumori, senza la voce di lei in sottofondo, senza pensieri. Libero e prigioniero (al tempo stesso) di una nuova dimensione, in cui tutto sarebbe ricominciato in maniera differente – o forse no. Ma questa volta, probabilmente, avevo vinto io.

© Testo – Stefano Angelo
:: Editing a cura di Francesca Frosali ::

Un ringraziamento particolare a Cristina T., Daniela A. e all’immancabile Salvina P.

Immagine di sfondo di Viki_B (Pixabay licence)

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