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Gli amori segreti di F.

Gli amori segreti di F.

:: di Umberto Gorini ::

– Colpito e affondato!
Dissi tra me mentre mi allontanavo con la coda tra le gambe. Era la prima volta che F. mi aveva preso in giro. E più che in giro pensavo ad un’altra espressione, molto più eloquente.

Camminavo a testa bassa, pieno di rabbia, mulinando l’aria con le mani.
Io, P., proprio io! L’uomo più tranquillo del mondo, anzi dell’universo!

È vero, l’incontro era stato fortuito. Prima delle misure precauzionali contro la pandemia, durante i nostri saltuari ma intensi colloqui, F. mi aveva gratificato delle sue confidenze e mi aveva raccontato con dovizia di particolari e giudizi taglienti le sue numerose per non dire innumerevoli avventure sessuali. Io ne rimanevo estasiato, sia per la di lei franchezza ma anche – lo ammettevo malvolentieri a me stesso – perché mi provocavano un timido “solletichino”, o meglio, un timido risveglio di antichi e ormai sopiti impulsi e pensieri.

Eravamo in farmacia, alla regolare distanza l’uno dall’altro di un metro e mezzo, provvisti di mascherine e guanti. F. era nell’altra fila, alta, imponente. La sua presenza era avvertibile, percepibile, anche senza guardarla. La sua era una bellezza che non rispettava né i canoni classici, né quelli “trend” dei tempi moderni, ma così vitale e prepotente che l’anziana donna, davanti, e l’uomo dietro di lei, tenevano una rispettosa distanza, addirittura maggiore di quella prevista dalle vigenti regole sul distanziamento sociale.

Le due file avanzavano lentamente. Davanti al banco vi erano due anziani con in mano blocchi di ricette spessi come elenchi telefonici. Quando si trovò pressoché alla mia altezza, le feci un cenno di saluto:
– Ciao F., allora come va la… “cosa”?
Avevo fatto una piccolissima, quasi impercettibile pausa prima di “cosa”. Non mi aspettavo di certo una risposta in chiaro e ricca di dettagli, ma a me sarebbe bastato anche un piccolo segno, qualche parola apparentemente banale ma, come in un codice segreto, piena di significati profondi che mi lasciasse intuire…

F. mi guardava con quei suoi occhi ammiccanti:
– Quale “cosa”?
Il fatto che anche lei avesse fatto una piccola pausa prima di “cosa” mi fece intendere che aveva invece perfettamente capito di che “cosa” si trattasse.

– Quella… “cosa”
Ero visibilmente in imbarazzo, la signora davanti a me, della mia fila, aveva girato leggermente il capo nella mia direzione e potevo quasi notare le sue orecchie tese all’ascolto.
– Quella “cosa” che… insieme… al calduccio…
Aggiunsi balbettando un po’.
– Ah! Purtroppo niente calduccio! Il riscaldamento si è rotto e con questo tempo sono al freddo. Rispose F. con un’aria che voleva ispirare compassione per il guasto improvviso.

Possibile che F. non avesse veramente capito?
Ripresi con più coraggio:
– Noo… è quando i battiti del cuore vanno all’impazzata e…
E lei sorridente:
– Proprio per quello, sono qui in farmacia con la ricetta del cardiologo.

Ma “questa” volutamente vuole equivocare! Lo sa benissimo quello che voglio. Si prende gioco di me? Sì che si sta prendendo gioco di me. I miei battiti stavano aumentando per emozioni diverse da quelle che avrei voluto provare.

La guardai quasi implorante e azzardai un ultimo tentativo:
– Ehm… sì, ma… nel letto…
Abbassai talmente la voce nel pronunciare “nel” che si sentì appena “letto”.
– Ah, adesso capisco! Parli del libro che mi avevi prestato. “La pace dei sensi”. Interessante, ma ancora non l’ho “letto” tutto. Sottolineando con evidente malizia, “letto”.

Tacqui. Era il mio turno.

F. si era sbrigata più velocemente. Mi passò vicino e per un attimo mi piantò addosso quei suoi occhi da dea sprezzante, pieni di mistero. Poi scomparve.

Mi avviai frettolosamente verso l’uscita più confuso che deluso, sentivo una sorta di furore montare impetuoso dentro di me. Feci un profondo respiro nell’inutile tentativo di recuperare la calma, per obbligarmi a riflettere su quello che era appena successo. Che avrei dovuto fare? Cercare di contattarla per esigere una improbabile spiegazione era pressoché impossibile, poiché F. rifiutava l’uso del telefono, dei social e naturalmente degli smartphone e per fissare i nostri incontri, si affidava a bigliettini trasmessi per via postale e senza mittente.

Ma forse avevo fallito nel mio ruolo. Forse mi ero dimostrato, in alcuni momenti, inadeguato. Forse F. aveva colto nei miei occhi – quando mi riferiva le sue oscene prodezze – un senso di smarrita riprovazione? O inconscia gelosia?
Eh sì, perché F. aveva una formidabile gamma espressiva, a volte sguaiata fino all’inverosimile, a volte invece mi sorprendeva con una delicatezza e una vena lirica novecentesca che mai avrei sospettato in lei.

Ma ormai era scomparsa, ed io mi ritrovai paralizzato guardando le luci intermittenti di un semaforo, non ricordo nemmeno più quale. Ricordo solo un respiro affannoso, annebbiante, sgradevole… ma forse non era altro che l’effetto della “mascherina”.

© Testo – Umberto Gorini

N.B. L’immagine di copertina è stata trovata sul Web e ritoccata con GIMP, non siamo riusciti a risalire all’autore.

:: ITALIAALTROVE, Associazione Italiana Francoforte, unisce le persone e stimola le collaborazioni. Questo racconto è un frutto indiretto di questa associazione che tanto fa per la comunità italiana residente a Frankfurt am Main ::

:: Editing a cura di Stefano Angelo e Salvina Pizzuoli ::


Il Capitano e il mozzo

Il Capitano e il mozzo

:: di Alessandro Frezza ::

“Capitano, il mozzo è preoccupato e molto agitato per la quarantena che ci hanno imposto al porto. Potete parlarci voi?”
“Cosa vi turba, ragazzo? Non avete abbastanza cibo? Non dormite abbastanza?”
“Non è questo, Capitano, non sopporto di non poter scendere a terra, di non poter abbracciare i miei cari”.
“E se vi facessero scendere e foste contagioso, sopportereste la colpa di infettare qualcuno che non può reggere la malattia?”
“Non me lo perdonerei mai, anche se per me l’hanno inventata questa peste!”
“Può darsi, ma se così non fosse?”
“Ho capito quel che volete dire, ma mi sento privato della libertà, Capitano, mi hanno privato di qualcosa”.
“E voi privatevi di ancor più cose, ragazzo”.
“Mi prendete in giro?”
“Affatto… Se vi fate privare di qualcosa senza rispondere adeguatamente avete perso”.
“Quindi, secondo voi, se mi tolgono qualcosa, per vincere devo togliermene altre da solo?”
“Certo. Io lo feci nella quarantena di sette anni fa”.
“E di cosa vi privaste?”
“Dovevo attendere più di venti giorni sulla nave. Erano mesi che aspettavo di far porto e di godermi un po’ di primavera a terra. Ci fu un’epidemia. A Port April ci vietarono di scendere. I primi giorni furono duri. Mi sentivo come voi. Poi iniziai a rispondere a quelle imposizioni non usando la logica. Sapevo che dopo ventuno giorni di un comportamento si crea un’abitudine, e invece di lamentarmi e crearne di terribili, iniziai a comportarmi in modo diverso da tutti gli altri. Prima iniziai a riflettere su chi, di privazioni, ne ha molte e per tutti i giorni della sua miserabile vita, per entrare nella giusta ottica, poi mi adoperai per vincere. Cominciai con il cibo. Mi imposi di mangiare la metà di quanto mangiassi normalmente, poi iniziai a selezionare dei cibi più facilmente digeribili, che non sovraccaricassero il mio corpo. Passai a nutrirmi di cibi che, per tradizione, contribuivano a far stare l’uomo in salute. Il passo successivo fu di unire a questo una depurazione di malsani pensieri, di averne sempre di più elevati e nobili. Mi imposi di leggere almeno una pagina al giorno di un libro su un argomento che non conoscevo. Mi imposi di fare esercizi fisici sul ponte all’alba. Un vecchio indiano mi aveva detto, anni prima, che il corpo si potenzia trattenendo il respiro. Mi imposi di fare delle profonde respirazioni ogni mattina. Credo che i miei polmoni non abbiano mai raggiunto una tale forza. La sera era l’ora delle preghiere, l’ora di ringraziare una qualche entità che tutto regola, per non avermi dato il destino di avere privazioni serie per tutta la mia vita.
Sempre l’indiano mi consigliò, anni prima, di prendere l’abitudine di immaginare della luce entrarmi dentro e rendermi più forte. Poteva funzionare anche per quei cari che mi erano lontani, e così, anche questa pratica, fece la comparsa in ogni giorno che passai sulla nave.
Invece di pensare a tutto ciò che non potevo fare, pensai a ciò che avrei fatto una volta sceso. Vedevo le scene ogni giorno, le vivevo intensamente e mi godevo l’attesa. Tutto ciò che si può avere subito non è mai interessante. L’attesa serve a sublimare il desiderio, a renderlo più potente. Mi ero privato di cibi succulenti, di tante bottiglie di rum, di bestemmie ed imprecazioni da elencare davanti al resto dell’equipaggio. Mi ero privato di giocare a carte, di dormire molto, di oziare, di pensare solo a ciò di cui mi stavano privando”.
“Come andò a finire, Capitano?”
“Acquisii tutte quelle abitudini nuove, ragazzo. Mi fecero scendere dopo molto più tempo del previsto”.
“Vi privarono anche della primavera, ordunque?”
“Sì, quell’anno mi privarono della primavera, e di tante altre cose, ma io ero fiorito ugualmente, mi ero portato la primavera dentro, e nessuno avrebbe potuto rubarmela più”.

© Testo – Alessandro Frezza
© Immagine – Stefano D’Ambrosio

Nota di Stefano: Mi sono imbattuto in questo racconto, di Alessandro Frezza, per caso. Un racconto letto nel periodo di quarantena, dovuto al covid-19. È stato tradotto e interpretato in diverse lingue. Ho avuto il piacere di ascoltarlo anche in portoghese. Un testo che ha toccato l’animo di diverse persone forse per la naturalezza con cui ci si immedesima nei personaggi.
Lo pubblichiamo nel maggio del 2020, dopo l’abbassamento delle misure restrittive. Un testo che ci aiuterà, in futuro, a ricordare un avvenimento che ha cambiato le nostre vite. Non sappiamo ancora se in maniera permanente. Molti dicono che ci saranno altre pandemie… e noi? Saremo preparati?

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