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Il temporale

Il temporale

:: di Maura Mollo ::

La luce a giorno e il boato fragoroso mi sorpresero in piedi, in quella casa troppo nuova per me ma già consumata dal tempo. Avevo aperto l’ultimo scatolone del trasloco soltanto poche ore prima e, nella confusione, non ricordavo dove fossero le candele, accessori vitali in situazioni come quella.

Arrancai come un cieco alla ricerca del divano: era inutile avventurarsi al buio. Mi accucciai sotto il piumone, che per fortuna avevo già sistemato per le serate fredde, e decisi che se la luce non fosse tornata avrei dormito lì. Dopotutto, avevo comprato quel divano perché era comodo come un letto.

La stanchezza e la pioggia mi fecero crollare e mi addormentai quasi subito. Un altro tuono, più forte di quello che mi aveva fatto rimanere senza corrente elettrica, mi svegliò all’improvviso, lasciandomi una sensazione di disagio sulla pelle increspata per una frazione di secondo. Mi appiattii il più possibile nell’incavo del divano per cercare calore e conforto. Strinsi a me il piumone e richiusi gli occhi, cercando di riaddormentarmi il prima possibile. Ma la mente aveva registrato qualcosa che gli occhi avevano fatto finta di non vedere, e adesso continuava a far scorrere nel cervello quella frazione di secondo, in cui il cuore aveva iniziato a martellare.

“È stato il tuono… e non conosci ancora la casa. Datti una calmata, non hai mica dieci anni!”

Fare la voce grossa con la mia mente mi aveva sempre aiutato a mettere le cose nella giusta prospettiva. Non avevo alcuna intenzione di dare spazio alla paura. Fra il temporale, la casa nuova e l’essere sola, alimentare immagini di pareidolia sarebbe stata la mossa più stupida da fare per il resto della notte. Eppure la mia mente non mi lasciava in pace: lampo e tuono quasi simultanei e i miei occhi aperti su una stanza ancora estranea; la parete di fronte abbellita con lo schermo gigante, effetto cinema per le serate relax; il tavolino accanto al divano, dove avevo già impilato alcuni libri da leggere; il corridoio sulla destra, troppo buio e sconosciuto; dietro di me la finestra, che si rifletteva sullo schermo nero della televisione; la figura di qualcuno in piedi, accanto al divano, che come la finestra si rifletteva sullo schermo nero…

Cercai di respirare, ma il mio corpo si era congelato. Niente aria, niente sangue, nessun battito. Rividi la sequenza nella mente, ancora e ancora: c’era qualcuno accanto a me.

No, impossibile. Abitavo al quarto piano, la porta di casa era chiusa e, nonostante la pioggia battente, se qualcuno fosse entrato mi avrebbe svegliata. In quella casa c’ero solo io…

O no?

Aprivo spiragli di soluzioni logiche per calmarmi, cercando al contempo di ripristinare una respirazione da sonno e un battito che non superasse il rumore della pioggia. Avevo solo un pensiero: tenere gli occhi serrati.

Ero tesa, pronta a cogliere il minimo rumore che non fosse l’acqua che continuava a picchiare sui vetri. Nessun fruscìo, nessun respiro, nessun movimento. Ma adesso, anche a occhi chiusi avevo la netta sensazione che quell’essere si fosse inginocchiato accanto a me e il suo viso fosse molto, troppo vicino al mio. Di nuovo la tensione divenne paralisi, di nuovo il sangue andò a nascondersi e il cuore s’inceppò. Qualunque cosa avessi fatto si sarebbe accorto che non dormivo, così rimasi immobile, sperando che il giorno e la luce arrivassero al più presto e senza rendermene conto mi addormentai di nuovo.

Mi svegliai lentamente, sentendo i muscoli finalmente sciogliersi. Era giorno, ma il cielo era ancora scuro per via dell’insistente brutto tempo. Le luci della stanza erano accese e adesso la casa mi metteva molta meno ansia. Andai subito alla ricerca delle candele, frugando in vari cassetti, e ne posizionai un paio su ogni tavolo, tavolino o superficie esistente. Diedi una disinvolta occhiata in giro, verificando di essere l’unica abitante di quell’appartamento. Quando tutto mi sembrò a posto, feci un bel respiro e mi preparai per uscire.

Al rientro, con le braccia piene di spesa e cianfrusaglie utili a iniziare una nuova vita, mi ritrovai a parlare da sola ad alta voce, come se volessi rendere partecipe dei miei acquisti la casa o chiunque mi stesse spiando. Perché la sensazione che ci fosse qualcuno continuò per tutto il giorno. Evitavo di guardare negli specchi, evitavo di girarmi di scatto, evitavo qualunque movimento repentino. Non volevo indispettire quell’essere, non volevo sorprenderlo e soprattutto, non volevo che lui sorprendesse me.

Col passare del tempo presi confidenza con la casa, non avevo più bisogno di accendere tutte le luci mentre mi aggiravo fra le stanze; la sensazione di non essere sola smise di farmi paura: continuavo a parlare ad alta voce e tutte le sere, prima di andare a dormire, sussurravo un “Buonanotte” amichevole. E tutte le notti, quando mi rigiravo nel letto, sentivo uno sguardo su di me, un volto molto, troppo vicino al mio.

© Testo e immagine – Maura Mollo

:: Editing a cura di edida.net ::

della stessa autrice: L’Equazione profonda del Mare

Sabbie mobili

Sabbie mobili

:: di Federica Ragazzo ::

Quella era una mattina strana. La sveglia suonò alla solita ora, il tempo dedicato al caffè era il medesimo di sempre, la scelta dei vestiti già fatta la sera prima, gli stessi gesti rituali per rimettere in ordine i lunghi capelli ramati e per nascondere quell’unico neo che aveva sul collo.

Ma quella mattina la testa di Claudia era totalmente vuota.

Nessun pensiero, nessun piano per il dopo. Non c’era nulla, quella mattina, di così importante da meritare attenzione. Solo chiudersi la porta alle spalle e andare incontro al destino. Con un’ora di anticipo. Claudia era sempre puntuale. Né un minuto prima, né un minuto dopo. Ma quella mattina la puntualità le pareva superflua. E sgarrare, quel giorno, significava ribellarsi. Claudia voleva ribellarsi. Aveva bisogno di ribellarsi.

Erano le nove. Claudia suonò il citofono del grande palazzo grigio. Che brutto colore in cui immergersi per cominciare una giornata. Ma si intonava perfettamente alla voce metallica che le rispose di salire al terzo piano. C’era l’ascensore in fondo all’androne ma prese le scale. Quelle scale erano così ampie, invitanti, curvavano morbide lungo il corrimano, era un piacere scalarle lentamente. “Tanto c’è ancora tempo”, pensò.

Al terzo piano un viso sorridente ma poco interessato le disse di accomodarsi indicando un’enorme porta a vetri. Claudia era la prima. Ma il colloquio ci sarebbe stato dopo un’ora. “Arriveranno altre persone” – si disse con un fil di voce – “c’è ancora tempo.”

Al di là della porta a vetri, Claudia si accomodò in cima a una delle sue montagne, dopo una lunga ed estenuante scalata. Lassù era sola, il resto del mondo ai suoi piedi.

Quando sei lassù, in cima a un monte, ti senti potente, immortale. Puoi parlare al sole, ti risponderà baciandoti la fronte, facendo arrossire le tue guance. Puoi sfogarti con il vento, urlandogli le tue paure… Puoi rimanere quieta, in silenzio… Puoi sapere con certezza che dopo aver assaporato quei momenti tutto andrà in discesa.

Voleva starsene ancora lassù, Claudia, protetta. In una dimensione priva di lancette. Ma un’eco le arrivò da dietro le spalle e la spinse giù, facendola precipitare in quella sala d’aspetto. Pazienza. Ci tornerà. “C’è ancora tempo”, continuava a pensare.

Entrare nello studio di un oncologo è come mettere entrambi i piedi nelle sabbie mobili. Appena ti siedi ti accorgi che scivoli giù. Cerchi di prendere fiato ma il respiro non arriva ai bronchi, si accorcia. Il ritmo cardiaco diventa incalzante. Mantenere la calma è ciò che pensi di fare ma divincolarti e fuggire è ciò che vuoi. L’indecisione aumenta il panico. Provi a prenderti qualche secondo, immobile, cerchi di calmarti ma non ci riesci. Resti lì, ferma. Perché se ti muovi è peggio, protrai l’attesa, allontani un epilogo che deve arrivare. Mentre vai giù. Più giù. Sempre più giù.

“Buongiorno signora, eccomi, scusi l’attesa”, irruppe il medico.

Claudia non disse niente e non udì altro.

Mentre il medico parlava Claudia continuava a sfregarsi le mani, le erano diventate improvvisamente umide ma lisce, era come se le toccasse per la prima volta. Quell’odore di pelle del portapenne sulla scrivania stava diventando insopportabile. E che caldo. “Non si può aprire la finestra?”, le mancava l’aria. Stava ancora scivolando giù.

Fu allora che arrivò una mano tesa: “Ha domande?”

Claudia a tratti riprese i sensi. Guardò per la prima volta il medico negli occhi. Non aveva ancora capito se quella mano l’avrebbe tirata su o spinta ancora più giù. E ci mise del tempo per capirlo. Dilatando un istante all’infinito.

“Se non ha domande da fare, può già fissare l’appuntamento con il chirurgo e chiudere tutto in mezza giornata. Potrà tornare subito a casa… e non dovrà nemmeno stare troppo a riposo.”

Claudia chiuse e aprì gli occhi un paio di volte, lentamente. La mano tesa era vera. Claudia la strinse, notandone il tepore. Si chiuse la porta dello studio alle spalle e saltò giù nel vuoto di un baratro che da ore, da giorni, si aspettava di trovare, ma questa volta sapendo di poter spiegare le ali. E si godette quel volo come si può godere solo della vita. Nel frattempo arrivò al desk. Prese l’appuntamento. Si scoprì il neo. Prese il telefono e si fece un selfie. “C’è ancora tempo, Claudia, c’è ancora tempo.”

© Testo – Federica Ragazzo

:: Questo racconto è stato realizzato durante il laboratorio di scrittura creativa di Mattia Grigolo – Le balene possono volare – svoltosi a Frankfurt am Main il 23 e 24 novembre 2019 e organizzato da ITALIAALTROVE, Associazione Italiana Francoforte. Editing a cura di Stefano Angelo e Salvina Pizzuoli ::

:: Audio in lavorazione a cura di Raffaella Sgrosso ::

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