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PUBBLICAZIONI EDIDA

Passione per la scrittura
ESPLORA
La pistola

Lo scambio

:: di Andrea Guglielmino ::

Il clima era mite. Insolito per Berlino. Una brezza fresca, proveniente dalle finestre semiaperte, ripuliva l’aria densa dei fumi della cucina. Tod spignattava, come sempre. Gli spaghetti erano quasi pronti. Belli al dente, come piacevano a lei. Tröme adorava l’Italia. Tod concluse le operazioni e poi si slacciò il grembiule da cuoco, che gli stava un po’ stretto sulla pancia e sui fianchi abbondanti. Si tolse il cappello da chef e asciugò qualche perla di sudore dalla testa pelata. Poi schiarì gli occhiali, che si erano appannati.

– Amore, è pronto. Hai finito il bagno? – chiamò.

Tröme stava uscendo dalla vasca in quel momento. Splendida, statuaria, sensuale, forme sinuose, fianchi perfetti, gambe lunghe, affusolate e un seno generoso, proporzionato, su cui ricadevano i capelli scuri e ancora bagnati di acqua schiumosa. Era difficile capire il motivo per cui i due stessero insieme. Quante occhiate di invidia verso Tod, con quell’aspetto così trascurato e poco attraente, quando camminava in strada a fianco della sua donna. Ma i due non ci facevano caso. Tod faceva tutto per lei, e lei lo ricambiava di un amore sincero. Nessuno si era mai preso cura di lei in tal modo.

– Sono quasi pronta! – rispose Tröme sortendo dal bagno in un accappatoio che fasciava le sue curve, lasciando vedere caviglie sottili e una scollatura vertiginosa. Con i suoi occhi da cerbiatta guardò il compagno, gli tolse gli occhiali e lo baciò con passione.
– Com’è stato? – chiese lui.
– Perfetto. Grazie per i sali. Era quello che ci voleva, dopo una giornata del genere.

Poco dopo si trovarono a tavola, a brindare con un buon Chianti. La cena era squisita, eppure Tröme era diventata, d’improvviso, silenziosa.

– Qualcosa non è di tuo gradimento, mia cara? – chiese Tod
– Oh, no, amore mio, no. È tutto superbo. È solo che… sono veramente stanca.

In effetti, se Tod era un perfetto casalingo, era Tröme a lavorare tutto il giorno perché l’equilibrio del loro ménage potesse sostenersi adeguatamente. Lei bevve un sorso di vino che le corroborò il palato con il suo gusto deciso. Tutto ciò che stimolava i sensi stimolava anche Tröme, e Tod, nel farla sentire viva, era un maestro. Toccava in lei corde che nessun altro sarebbe stato in grado di sfiorare.

– Ah – disse Tod – lo so quello che ci vuole per te.

Si alzò prontamente e iniziò a massaggiare delicatamente il collo e le spalle armoniose della sua donna.

– Mmmmh… – mugugnò lei sensualmente, con soddisfazione.

Si rilassò, e ricominciò a parlare.

– Sai che apprezzo le tue coccole – disse – ma il lavoro mi sta letteralmente uccidendo. È un vero massacro.

Tod la lasciò sfogare, e poi propose:

– Se vuoi staccare un po’, avrei un’idea.
– Sarebbe? – chiese Tröme incuriosita.
– Sarebbe che ci scambiamo di posto per qualche giorno. Vado io al lavoro e tu stai a casa. Che ne pensi?

Lei gli lanciò uno sguardo stralunato.

– Aspetta – specificò lui – non è che pretendo che tu cucini. C’è sempre il servizio a domicilio. Ti riposerai e io farò il lavoro che fai tu di solito… dopotutto, non è una cosa impensabile, no?

Ci fu qualche lungo secondo di silenzio, poi Tröme scoppiò in una risata che Tod non prese bene. Lei se ne rese conto e corresse immediatamente il tiro, accarezzandogli dolcemente il viso.

– No, amore, non fare così – disse Tröme – Scusami, veramente. Sei tanto dolce e io ti amo per questo, ma… non è possibile. Voglio dire, non sai nemmeno come si usa lo strumento.
– Beh – rispose lui un po’ sollevato – per questo mi sono permesso di acquistarne dei miei. Vedi, era un po’ che ci pensavo, tra poco è il nostro anniversario, e volevo proporti questo scambio come regalo ma… mi hai anticipato.

Tod si allontanò momentaneamente, con il permesso di Tröme, e tornò con una misteriosa e voluminosa valigia. Quando la aprì, gli occhi di lei si illuminarono. Era piena di armi. Da taglio, da fuoco, un coltello, una pistola, un’ascia. C’erano perfino una spada a lama finissima – poteva essere una Toledo – e una mitraglietta.

– Però – ammise Tröme – niente male!
– Visto? – replicò Tod – dammi una possibilità. Posso cavarmela!

Tröme ci pensò ancora un attimo. Dopotutto, erano una coppia moderna, e questa momentanea inversione non poteva far male. E poi il gesto di Tod era veramente tenero, perché mandarlo in fumo?

– Va bene – disse lei – proviamo per un giorno. Domani lasciami dormire. Trovi la mia lista sul comodino.

Tod fece un gran sorriso.

– E adesso – ordinò Tröme porgendo un piede al suo uomo – sai cosa devi fare.

Tod iniziò a massaggiare. I piedi di Tröme erano perfetti, morbidi e profumati come un misto di spezie esotiche. Tod li avrebbe leccati e annusati per ore. Iniziò ad eccitarsi e Tröme notò la sua dirompente erezione. Tröme spostò il piede sul pene di lui e iniziò ad accarezzarlo. Fecero l’amore selvaggiamente, come due animali.

La sveglia suonò alle 6.00. Tod si lavò e si fece la barba con cura, poi mise il suo vestito buono. Raso viola e camicia di seta azzurra. Cravatta intonata e annodata con perizia. La sua compagna aveva un’uniforme di lavoro, voleva averne una anche lui. Tröme dormiva sensualmente adagiata. Lui fece silenzio per non svegliarla. Prese la lista. Era parecchio lunga. Fece colazione, poi caricò in macchina la valigia con i ferri e seguì con cura le indicazioni, che lo portavano a Jacob Kief, bancario, onesto lavoratore, una moglie e due figli piccoli. L’appuntamento era per le 7.30. Kief scese puntualmente alla fermata di Potsdamer Platz. Era stressato, quella mattina aveva un gran mal di testa e quando gli arrivò in fronte il proiettile che Tod gli aveva piazzato in testa da lontano, con un silenziatore, il rilascio dei nervi alleviò il dolore. Kief ne fu felice. Poi stramazzò a terra schizzando pezzi di cervella, tra l’orrore generale degli astanti. In meno di un minuto il diligente Tod mise in moto la macchina e si dileguò. Poi passò a Laura König, casalinga, uccisa a colpi d’ascia in un vicolo, e a Gino Steben, quattordicenne, trucidato da una raffica di mitraglietta.

Per la signora Bergen fu diverso, aveva ottant’anni ed era in ospedale da tempo e in pessimo stato. Bastò staccarle il respiratore in un momento in cui tutti erano distratti. Nessuno andava a trovarla da settimane. Frau Bergen prima di morire guardò Tod e sorrise. Lo aveva scambiato per suo figlio.

Tröme stava facendo shopping. Pensò che sarebbe stato carino chiamare Tod per sapere come stava andando. Squillò il cellulare – con un pezzo dei Carcass – e Tod rispose attivando il viva voce dell’automobile.

– Come procede, tesoro?
– Tutto molto bene – rispose lui – anzi sono già avanti sulla lista. Arrivo presto. Ma adesso… devo risolvere un problemino!

Tod imboccò una superstrada spaccando ogni barriera senza ritegno, inseguito da una scia di macchine della polizia urlanti, di cui aveva inevitabilmente attirato l’attenzione. Sparò l’ultimo colpo dal finestrino e prese in pieno, bucando il vetro, la testa del poliziotto che era alla guida della prima. Era Fred Wilhelm, ed era in lista. La volante deragliò, devastando il guard rail e cadendo giù nella vallata sottostante, e così fece la macchina di Tod, non appena la sua gomma destra posteriore venne colpita da un proiettile. La sua auto esplose, e così quella della polizia, in uno spettacolare tripudio di rottami, fiamme e carne bruciata.

Tröme aveva appena attaccato il telefono per ordinare le pizze, Quattro Stagioni per lei e Capricciosa per lui, quando suonò il campanello, che riproduceva maestosamente il Requiem Confutatis di Mozart. Tod era orribilmente sfigurato, con ustioni di vario grado sul viso e su tutto il corpo. La mascella quasi staccata dal resto del viso, e faticava a parlare.

– Bentornato tesoro! – lo accolse Tröme affettuosamente e solo dopo notò la pessima cera del compagno – Mamma mia! Come ti hanno ridotto!
– Hhhhhhhh… – sospirò lui, che non poteva articolare le parole.

Tröme lo baciò, cercando di centrare quello che era rimasto della sua bocca, e le ferite di Tod iniziarono miracolosamente a guarire. In meno di un minuto era come nuovo.

– Ecco fatto – disse lei – però che ti avevo detto? È un lavoro stancante, il mio…
– Lo so, tesoro – fece eco lui – lo so…

Suonò nuovamente il Confutatis. Erano le pizze. Mangiarono rapidamente e si infilarono a letto. Tröme si presentò nel nuovo completo intimo, più sexy che mai.

– Amore – disse lui – sei bellissima, ma sono distrutto. Non ce la faccio.

Tröme lo tranquillizzò e lo abbracciò forte. Si addormentò come un bambino. E così fece lei. Fu una notte tranquilla. Alle prime luci Tröme si svegliò e guardò il suo Tod. Era dolce. Quando lo aveva incontrato, per la prima volta, era sul ciglio del ponte di Oberbaumbrücke, in piena notte. Stava per buttarsi giù. Lei si presentò con il suo vero aspetto. Tod la guardò come nessuno l’aveva mai guardata. La aspettava da sempre. Quello sguardo innamorato la spiazzò e cambiò la sua esistenza per sempre. Dopotutto anche lei, la Morte, aveva il diritto di amare ed essere amata. Tod la conquistò con un bucatino all’amatriciana. Aveva perso il lavoro da chef, ma ora qualcuno poteva apprezzare i suoi piatti. Lei amava l’Italia. Per questo aveva scelto “Tröme” come pseudonimo: l’anagramma del suo vero nome in italiano, aggiungendoci quell’Umlaut che dava un tocco di ‘nordico’ in più. E si era fatta bella, per lui, per ringraziarlo. Perché fossero felici. Quanto poteva durare? Non lo sapeva e non le importava. Adesso doveva tornare al lavoro. Aprì l’armadio e prese la falce, il suo strumento. Indossò il mantello, la sua uniforme e passando davanti allo specchio si vide, per come si concepiva lei. Vide il teschio. E anche se non aveva labbra, sapeva di sorridere. Baciò Tod ancora rannicchiato in posizione fetale.

– Tesoro mio – sussurrò – te la sei cavata bene e mi hai fatto passare una giornata stupenda. Ma adesso è meglio che torni io…

E uscì di casa, pronta a mietere vittime.

© Testo – Andrea Guglielmino

:: Editing a cura di edida.net ::

Immagine “mano con pistola” presa dal sito PNGWing e ritoccata da Stefano Angelo

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Letto di ospedale

Il Maestro

:: di Andrea Guglielmino ::

Rantoli. Rumore di ossa che scricchiolano. Flatulenze. Colpi di tosse.

È lì, 89 anni compiuti a gennaio, è lì, inerte, scheletrico, vulnerabile. Tutti noi dell’infermeria lo chiamiamo con rispetto “Maestro”, e a tutti sembra assurdo che sia avvolto nelle medesime lenzuola che hanno ricoperto centinaia di “signor nessuno” che sono andati e venuti dall’ospedale, a volte tornati più volte, a volte per salutare per sempre questo mondo. In pochi hanno osato rivolgergli domande sul suo lavoro.

Osannato ovunque, celebrato. Direttore d’orchestra per le più famose filarmoniche del mondo, ha composto per i più grandi registi colonne sonore di film considerati unanimemente capolavori del cinema mondiale e ricevuto nomination e premi di ogni genere.

Qui, però, è solo una persona anziana alla fine dei suoi giorni. Ne abbiamo visti di personaggi famosi, ma non ci si abitua mai alla nostra prospettiva. Quando arrivano qui sono tutti uguali, tutti malati. Soprattutto quando le condizioni sono critiche. La malattia e la morte equilibrano l’universo.

E poi, in questo caso, non è la fama che fa grande qualcuno. È il talento.

Il Maestro è qui da marzo. Viveva e respirava musica. Notava il tintinnio delle posate quando gli servivano la cena, finché è stato in grado di mangiare. Era rapito dal canto dei passeri quando gli addetti alle pulizie aprivano la finestra per far cambiare aria alla stanza. Faceva arte con gli strumenti che aveva. Un giorno chiese dei bicchieri e li riempì d’acqua a livelli diversi per creare una piccola melodia sfregando attorno al bordo di ciascuno con le dita inumidite. Tutto il reparto applaudì.

Cercava sua moglie, ogni tanto, ed era sempre difficile ricordargli che se n’era andata prima di lui, due anni prima.

Il Maestro sembrava così irraggiungibile, intoccabile. Eppure oggi dobbiamo toccarlo per permettergli di avere una dignità e dei vestiti puliti. Dobbiamo cambiarlo, rivoltarlo, cambiargli posizione perché non decubiti, ogni sera. Vorremmo accarezzarlo, trasmettergli più affetto e rispetto. Vorremmo fare di più, ma i ritmi frenetici di corsia di questi giorni non sempre lo consentono. Siamo stremati.

Il Maestro è nella condizione in cui finirà, presto o tardi, ciascuno di noi. Il Maestro è noi e noi siamo lui. E per questo gli vogliamo bene. Forse è sempre stato così, per questo ci siamo riconosciuti nelle sue partiture e le abbiamo amate così tanto, anche senza necessariamente comprenderle fino in fondo.

È gentile il Maestro. E quando qualcuno, per distrarlo, gli chiedeva come fosse dal vivo questo o quel regista, rispondeva sempre: “normale”. Certo. Per lui, che è così grande, sono tutti normali. Il mondo è meravigliosamente, armonicamente normale. Anche oggi, che siamo qui a rivolgergli quello che, lo sappiamo, sarà probabilmente l’ultimo saluto.

Rantoli. Rumore di ossa che scricchiolano. Flatulenze. Colpi di tosse. Dati a cadenza ritmica. Un rantolo, due ossa, tre colpi di tosse, una flatulenza. Rantolo, ossa, tosse, flatulenza. Un valzer, forse. Non sono esperto di musica. Nessuno di noi lo è, ma quella del Maestro arriva al cuore, anche se costruita con i rumori della decadenza. Tutti abbiamo capito.

Non stava solo morendo.

Ci stava offrendo un regalo, un ringraziamento. La sua ultima sinfonia, composta con il suo corpo in disfacimento. L’ultimo strumento che ha a disposizione, e che presto abbandonerà per diventare lui stesso musica.

© Testo – Andrea Guglielmino

:: Editing a cura di Stefano Angelo ::

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