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La casa

La casa

:: di Umberto Gorini ::

Era calata la sera e accelerai, allungando il passo.
Non vedevo l’ora di arrivare a casa e rivedere Anita, la mia compagna, che sicuramente aveva preparato una bella cenetta. Quando lei era al lavoro toccava a me preparare i pasti, ma non ero di certo alla sua altezza. Anita era infermiera e oltre alla salute provvedeva anche alle grandi e piccole incombenze dei restanti anziani, abitanti di quel paesino sperduto dell’entroterra ligure.

Io, invece, ero la controparte tecnica di Anita. Allestivo, riparavo e risolvevo problemi di antenne, ricevitori, televisioni, telefoni, collegamenti internet etc. Ma forse il mio compito più importante e non retribuito era quello di parlare con le persone, ascoltare quei pochi vecchi rimasti abbarbicati al paese. Come me del resto. Questa riflessione si inserì estranea nel flusso dei miei pensieri: già! Rimanevano avvinghiati a un paese che piano piano, senza uno straccio di negozio, uno spaccio o una rivendita di tabacchi, si stava spopolando.

Lì si sperimentava da tempo la telemedicina e spesso io o Anita eravamo accanto a qualche abitante per prestare assistenza. Per il resto il medico con l’ambulanza veniva – quando veniva – in casi estremi e spesso con troppo ritardo. I figli se ne erano andati e poco dopo anche i genitori li avevano seguiti. Qualcuno era rimasto e nei primi tempi figli e nipoti ritornavano d’estate e per qualche settimana il luogo si rianimava, ma poi ritornava il silenzio e la pace. I verdi prati intorno, i boschi e i sentieri, la tranquillità… tutte cose che io e Anita apprezzavamo ma che ai giovani non interessavano o addirittura detestavano. Così col passar degli anni non venne praticamente più quasi nessuno.

Certo, c’erano internet, Skype e quant’altro che permetteva a molti, se non tutti, di tenersi in contatto col mondo e con figli e nipoti. Per loro ero indispensabile, o almeno così mi sentivo io. Altri, ancora in buona salute e incuranti delle novità tecnologiche, curavano qualche albero di olive, un orticello o andavano per boschi e si fermavano a guardare il panorama dalla collina.

Pensai a quando non ci sarebbe rimasto più quasi nessuno. Allora che cosa avremmo fatto, noi due? Anita da qualche tempo, prima solamente accennando e poi diventando sempre più esplicita, mi aveva detto che desiderava un bambino, anzi più di uno. Io amavo i bambini, ma avevo qualche perplessità per la scuola lontana, per la mancanza di altri bambini con cui giocare e anche per il troppo silenzio del luogo. Ma quella sera avrei preso Anita tra le braccia e messo da parte le mie riserve. In fondo i figli non erano un’ipoteca e un’assicurazione sul futuro? E noi, abbastanza giovani, se non proprio giovanissimi, avevamo ancora molti anni da trascorrere insieme.

Felice, di aver preso questa decisione, cambiai il lato della strada che stavo percorrendo. Da destra a sinistra. Senza pensare, automaticamente. Ma poi, voltandomi, vidi la “casa”.

Era un po’ lontana dalla strada dentro una specie di piccolo parco ormai inselvatichito, circondato da una recinzione di legno molto malridotta.

Mi vennero prepotentemente in mente le dicerie e le voci su quella casa. Voci e dicerie del tipo si “sentiva”, si “vedeva” ma mai niente di più dettagliato. Da ragazzo avevo tentato di saperne di più e i vecchi del paese mi avevano raccontato di una famiglia felice che all’improvviso aveva lasciato tutto per andarsene lontano. Forse in America o in Australia e così la casa era rimasta abbandonata.

Ripensai, sorridendo, alle prove di coraggio che effettuavo da ragazzino con i miei amichetti. Queste prevedevano dapprima di scavalcare il cancelletto sempre chiuso, avvicinarsi alla casa, poi alla porta d’ingresso chiusa e infine la prova suprema: toccare il pomello della porta. Di più non avevamo mai osato, anzi eravamo scappati di corsa, senza sapere il perché e nessuno aveva mai detto o confessato il brivido di paura che avevamo sentito dentro di noi.

Anni erano passati. Molti anni. La “casa” era pian piano – sebbene sempre lì – quasi scomparsa anche dalle chiacchiere dei vecchi sulla panchina. I miei compagni di gioco e di avventura erano pian piano andati via e io, preso dalle molteplici attività, non ci avevo praticamente più pensato o forse avevo semplicemente rimosso il ricordo.

Riguardai la casa ben delineata nel chiarore lunare. Anche se abbandonata sembrava ancora in buono stato. Guardai meglio. La porta dell’ingresso sembrava socchiusa, anzi era socchiusa e da uno spiraglio usciva una lama di luce bianca, molto più bianca di quella lunare.

Possibile? Ci sarà qualcuno? – mi chiesi.

Ritornai sull’altro lato della strada, davanti al cancelletto. Ero indeciso: ritornare sui miei passi, andarmene a casa, stringere Anita tra le braccia e fare progetti per il nostro futuro? Oppure andare a vedere che cosa c’era dietro quella porta socchiusa? Scrollai le spalle: ancora paura della “casa”? Alla mia età?

Aprii il cancelletto che non emise, stranamente, nemmeno un cigolio e percorsi quelle poche decine di metri fino all’ingresso. Qui mi fermai e ricordai che questo era quasi il limite massimo a cui mi ero spinto da bambino. Non si sentiva nessun suono o rumore. Salii i tre gradini e mi avvicinai alla porta. Cercai di guardare attraverso lo spiraglio, ma la luce era così intensa che non riuscii a scorgere niente.

Sfiorai con la mano il pomello, velocemente, come se avessi paura di prendere la scossa o che fosse incandescente. Tirai un lungo sospiro e spalancai la porta.

Prima di varcare la soglia mi concessi ancora una manciata di secondi: scorsi un corridoio. Quella strana luce proveniva proprio dalla porta in fondo a quel corridoio. Oltrepassai la soglia, deciso ma anche molto cauto. Ai lati del corridoio non c’era nulla, nessuna altra porta, nessun mobile o quadro.

Andai verso la luce, verso quella porta aperta…
Entrai in una grande stanza piena di quella luce strana, ma spoglia e disadorna. L’unico oggetto presente, una poltrona posta esattamente al centro della sala. Le finestre erano coperte da pesanti tende che lasciavano trapelare appena un lucore lunare. Da dove veniva dunque tutta quella luce?

Mi avvicinai alla poltrona, di stoffa verde. La guardai attentamente. Passai un dito sullo schienale. Nemmeno un granello di polvere. “Strano” – pensai. E girai ancora con lo sguardo l’intera stanza, ma già sapevo che l’avrei fatto.

Mi misi seduto sulla poltrona.

Si stava molto comodi, anche se cedeva leggermente adattandosi alla mia figura, piuttosto pienotta – grazie alle arti culinarie di Anita alle quali opponevo da tempo una sempre più debole resistenza.

Dopo aver assaporato quella sensazione di comodità, mi chiesi che cosa stessi in fondo facendo lì, in quella stanza, seduto su quella poltrona, quando davanti ai miei occhi si aprì una visione, o meglio mi trovai completamente immerso in una scena in cui due giovani si rincorrevano su una spiaggia, giocando, scherzando per poi baciarsi, scambiandosi sguardi a dir poco intensi. Io non soltanto vedevo, ma sentivo il rumore del mare, l’odore salmastro, gli stridii dei gabbiani. Sentivo la sabbia, le alghe sotto i miei piedi nudi. Ero così vicino a questi due giovani felici e sconosciuti che avrei potuto sfiorarli con la mano.

Ma all’improvviso tutto si dissolse e mi trovai in tutt’altro ambiente. Una donna a cavallo, una donna matura. Un’andatura leggera tra colline piuttosto brulle adornate da qualche alberello striminzito. Sembrava assorta in pensieri. Percepivo che era in difficoltà, sentivo il dorso del cavallo sotto di me, il suo sudore e il suo sbuffare mentre arrancava un po’ in salita per un sentiero poco battuto. A che cosa pensava, con gli occhi rivolti in basso, mentre teneva distratta le redini con una mano?

Ma non ebbi tempo di riflettere su qualche ipotesi che di nuovo qualcos’altro si aprì ai miei occhi. Un uomo sedeva accanto a un letto, dove una donna giaceva immobile, tra apparecchiature, tubi, cavi e fili di ogni genere. Certamente un ospedale. L’uomo la guardava fisso e silenzioso. Lei era completamente immobile, con gli occhi chiusi. L’uomo si avvicinò e la baciò delicatamente sul volto: sulla guancia, sulla fronte, sulla bocca. Baci lievi e leggeri, quasi più accennati che dati. Su tutto aleggiava un forte odore di medicinali e di…

Non riuscii a finire il pensiero che mi trovai in un ambiente pieno di rumore e di odore di metallo. Uomini e donne montavano pezzi meccanici e lamiere, intorno a una scocca di automobile. Braccia meccaniche di robot ruotavano su sé stesse. Sul pavimento si vedevano pezzi di metallo, viti, chiavi e altri attrezzi sul nudo cemento. Gli uomini e le donne lavoravano con gesti ripetitivi e quasi non scambiandosi una parola. Ogni tanto certe macchine emettevano sibili o segnali d’allarme e spie rosse lampeggiavano furiose.
Mi tornò in mente quando da giovane entrai in fabbrica e vi restai per un anno esatto. Ma non era per me.

La fabbrica sparì e una torma di bambini eccitati prese il suo posto. Correvano lungo una strada coi visini rossi, urlando e prendendosi in giro con uno sfottio continuo e assillante. Credetti di riconoscerne qualcuno, ma chi? Un bambino rimase indietro. I compagni lo chiamavano, lo invitavano ad andare con loro, ma lui li fissò silenzioso e prese la direzione contraria.

Poi immagini e situazioni, alcune molto tristi, altre felici e altre ancora indecifrabili si susseguirono sempre più rapidamente in una ridda di colori e suoni e sensazioni fortissime.

Quanto tempo era trascorso da quando mi ero seduto su quella poltrona? Tanto? Poco?

Poi calò il silenzio. Luci e colori scomparvero e mi vidi seduto nella poltrona in quel luogo disadorno. Vidi me stesso, Cesare. Guardai la mia faccia, guardai dentro i miei occhi spenti e allora capii.

© Testo – Umberto Gorini
:: Editing a cura di Stefano Angelo e Salvina Pizzuoli ::

© Immagine – Elena Barsottellilink su Instagram

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