San Valentino
:: di Lyes ::
Arrivai alla “Casa della pietà misericordiosa” che era buio. Ero stata tutto il giorno nel dubbio se andare oppure no. Ma poi al diavolo. Quella donna aveva significato qualcosa per me da ragazzina e non l’avevo dimenticata.
Chiusi gli occhi, per trattenere l’emozione e mi vidi ancora lì, ancora adesso. Riuscivo quasi a percepire gli odori di quell’estate rovente. Giocavamo mezzi nudi per strada. Gli adulti seduti su sedie disposte sull’uscio aperto di casa, per la leggera corrente che si generava e che dava un refrigerio apparente. Noi, a rincorrerci con secchi d’acqua, maschi contro femmine in questa danza di inizio adolescenza dove se ti tocchi per sbaglio o se qualcuno ti prende in braccio, per gioco, è ancora concesso, anche se già vuol dire qualcosa di più. Si affacciavano in noi le prime pulsioni sessuali e nessuno voleva stare in disparte. Vedevo i maschi guardare sgomenti i seni ormai sbocciati delle mie amiche e volevo morire, sprofondare, essere risucchiata dalla polverosa terra riarsa. Io, che invece avevo ancora due minuscoli bottoncini sotto la canottiera bianca, li guardavo umiliata.
– Nina, veni cà (vieni qui).
Andai obbediente dalla nonna di Clara.
– Nu misi nci dugnu, e ti zumperanno tutti i supa. (Nel tempo di un mese, ti salteranno tutti addosso)
Mi sorrise, col suo sorriso di cartapesta e io feci altrettanto.
Entrai in una stanza male illuminata. Con candelieri finti alle pareti. Con scritte stampate sui muri: “Pentitevi prima che sia troppo tardi”, “la verginità è una virtù che spalanca le porte del paradiso” e altre amenità e mi chiesi che c’entrava la nonna di Clara con questo posto orrendo.
Non la riconobbi. Pensai inorridita che la morte ti trasfigura i lineamenti e che un giorno sarebbe toccato anche a me stare lì, morta e irriconoscibile.
Una, che credetti una parente, mi si avvicinò e mi disse in maniera grave e solenne:
– Era una gran persona, non è vero?
– La migliore. Mi ha dato fiducia quando non l’avevo.
La signora s’impensierì. Gli angoli della bocca invece di salire, si catapultarono verso il basso e percepii una sottile tensione. Non sapevo bene come continuare. Forse era troppo misera come commemorazione. Continuai mettendoci più enfasi.
– MI ha detto le parole giuste quando serviva. MI ha fatto sentire speciale.
L’effetto fu anche peggiore del precedente. Con la faccia stupita, a punto interrogativo, mi chiese:
– Perdonami cara, ma quando te le avrebbe dette queste cose?
– Quando ero una ragazzina.
– Una ragazzina? Cioè? – lasciando trapelare lo smarrimento –
Non so perché cominciai a sudare freddo. Cos’erano tutte quelle domande. Cosa stavo dicendo di sbagliato?
– Sì, insomma, mi ha fatto sentire bella come nessuno mai prima.
All’improvviso un pianto dirotto e disperato la scosse. Come fosse una ragazzina lei, adesso.
Singhiozzava violentemente e io ero senza parole. Non avevo idea di chi fosse quella signora.
Un istinto primordiale di autoconservazione mi suggerì, non so come, di aggrapparmi a qualcosa di reale e mi misi a leggere, sul manifesto ai piedi della cassa, il nome della morta.
Del morto!
Ottavio Romano. Bel nome. Ma non il “mio” nome e non “la mia morta”.
Avvampai.
Uscii farfugliando inutili scuse, cercando di chiarire la mia posizione ormai compromessa e compromessa anche quella del morto, che poveretto non poteva nemmeno difendersi, il cui ricordo sarebbe stato per sempre offuscato per colpa mia che nel frattempo avevo cominciato a ridere in maniera sconveniente e inopportuna. La vedova mi guardava andare via, sconcertata.
Scoprii così che la “Casa della pietà misericordiosa” aveva tante casette e che dava riposo a più “ospiti” contemporaneamente.
Ma mettete indicazioni più chiare se è così che funziona!
Entrai finalmente nella casa giusta, senza finti candelieri alle pareti e soprattutto senza scritte da Medioevo sui muri, e mi trovai di fronte quattro generazioni di donne.
La morta, nonna della mia amica. La mia amica, sua mamma e sua figlia.
Nonna e nipote erano sedute accanto. Stessa corporatura. Stessi occhi neri come pece e stesse labbra carnose. La nipote però sovrastava la nonna di almeno quaranta centimetri e l’effetto era un po’ matrioska. L’anziana aveva i capelli neri corvini raccolti a treccia sulla nuca. La giovane li portava rosso fuoco, tagliati all’altezza delle spalle, se la guardavi da destra. Se la guardavi da sinistra, completamente rasati. Vestita di nero d’ordinanza la nonna. Mentre la nipote indossava una felpa sempre nera ma con una scritta al centro bianca: FUCK YOU! Tutto maiuscolo. Jeans, manco a dirsi, strappati. Le unghie verde fluo.
Erano uno spettacolo. Le guardavo ipnotizzata.
MI raccolsi un attimo in silenzio, pensando a quello che avevo da dire alla morta, per salutarla, ma avevo già detto tutto a Ottavio e quindi non avevo altro da aggiungere.
Io e Clara volevamo invece dirci tante cose. Sembrava non fosse né il luogo né il momento adatto ma fu lei che si avvicinò per prima e mi abbracciò. Cominciammo a parlare a bassa voce, quasi sussurrando, di quello che ci era successo in quegli anni, come se non fosse passato tutto quel tempo. Come fosse stato solo ieri.
– Mio marito voleva prenderti a schiaffi, appena ti ha vista al nostro matrimonio con quel vestito da “poco di buono”.
Erano passati quindici lunghi anni. Si erano sposati il 14 febbraio. Di San Valentino. Avevano voluto celebrare il compleanno di Clara e il matrimonio insieme. E l’occasione, il colore e l’abito mi erano sembrati quelli giusti.
Questa era la prima volta che parlavamo da allora.
Ed era vero. Mi vergognavo da morire adesso. Non mi capacitavo di come avessi potuto osare tanto. Io che, anche a sedici anni, pur potendomelo permettere, non avevo mai esagerato nel mettermi in mostra.
Al loro matrimonio ero invece stata ai limiti della decenza. Avevo quel maledetto vestito rosso fuoco, e sì aveva ragione il marito. Mi guardavano tutti. Ma io mi sentivo pura e innocente e dalla parte della ragione. Anche se devo confessare, ero single e avevo una gran voglia di divertirmi.
Lo feci. E il marito, fresco di pacco, della mia amica si incazzò ancor di più appena scoprì che mi ero portata a letto un “di lei lontano parente”.
Non so, forse il fatto che fossi l’amica intima della sua, ipoteticamente ancora casta, sposa lo indispose. Ma non me ne curai allora e men che meno oggi. Davanti alla vecchina morta mi dissi che era stata una serata memorabile. Più che soddisfacente. E che la nonna di Clara avrebbe approvato. Anche se poi si scoprì che il “di lei lontano parente” era pure fidanzato, che “scemunito”, ma vabbè. Cose che capitano.
Ricordammo insieme la faccia stralunata di sua suocera quando mi chiese ingenua: quello è il tuo ragazzo, cara?
E io, che non vedevo l’ora nella vita di poter usare una frase tratta da uno dei miei film preferiti, risposi candidamente: no no, lo uso solo per il sesso!
– Ah bene!
… scappò detto alla suocera prima di capire cosa avevo effettivamente risposto, per poi improvvisare un mancamento da vera bigotta. Miracolosamente si riprese in pochi istanti e come posseduta da satana cominciò a insultarmi e io, attonita, mi chiesi perché a questa sconosciuta o al mondo intero fregasse tanto con chi andassi a letto io.
Cominciammo a ridere e Clara mi tirò per un braccio e mi portò fuori dove, camuffando le risa con un pianto disperato, chiunque la incontrasse si meravigliava e riteneva forse un po’ esagerata e fuori luogo questa “disperazione” per la vecchina. Che sì, era la nonna, ma già ultracentenaria, morta nel sonno, nel suo letto, con un bel sorriso stampato in faccia che le durava tuttora.
Clara, soffocando le risate, si beveva le lacrime e accettava le condoglianze con una sacralità e una dignitosa compostezza che non le riconobbi nemmeno quando ci diedero la prima comunione, cosa a cui aveva tenuto tantissimo.
Ora eravamo qui, l’una di fronte all’altra e io ero stata per tanto tempo arrabbiata con lei. Tremendamente arrabbiata. Perché aveva lasciato che il marito s’intromettesse tra di noi e mi aveva messo da parte. Perché ogni compleanno passato senza il suo “auguri piccolo soffio del mio cuore” era stato meno bello. Perché pensavo a tutte le volte che l’avrei voluta accanto, per ridere, piangere, rimproverarmi e fare le sceme.
Eravamo un po’ tristi per davvero adesso. E mi venne in mente che magari anche lei stava pensando le mie stesse cose. Che forse anch’io avrei potuto provarci di più. Fare meno la vittima, “quella che se la prende”. Avrei potuto, dovuto, alzare il telefono e chiamarla. Nonostante il marito.
Le accarezzai la guancia e le diedi un bacio. Allora mi resi conto che il silenzio certe volte, non bastava, anche se ci si era capite. Ero sempre stata quella che dosava troppo le parole. Ma bisognava anche dirle, a chi se le meritava, quelle giuste.
– Mi dispiace tanto, Clara.
– Anche a me.
– Buon compleanno, piccolo soffio del mio cuore.
– Grazie – mi rispose sorridendo.
Era oggi il 14 febbraio, San Valentino.
Mi alzai per andare.
– Nina?
– Dimmi.
– Mi chiami?
– Ti chiamo.
© Testo – Lyes
Immagine di Claudette Gallant da Pixabay (con relativa licenza)