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Passione per la scrittura
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San Valentino

San Valentino

:: di Lyes ::

Arrivai alla “Casa della pietà misericordiosa” che era buio. Ero stata tutto il giorno nel dubbio se andare oppure no. Ma poi al diavolo. Quella donna aveva significato qualcosa per me da ragazzina e non l’avevo dimenticata.

Chiusi gli occhi, per trattenere l’emozione e mi vidi ancora lì, ancora adesso. Riuscivo quasi a percepire gli odori di quell’estate rovente. Giocavamo mezzi nudi per strada. Gli adulti seduti su sedie disposte sull’uscio aperto di casa, per la leggera corrente che si generava e che dava un refrigerio apparente. Noi, a rincorrerci con secchi d’acqua, maschi contro femmine in questa danza di inizio adolescenza dove se ti tocchi per sbaglio o se qualcuno ti prende in braccio, per gioco, è ancora concesso, anche se già vuol dire qualcosa di più. Si affacciavano in noi le prime pulsioni sessuali e nessuno voleva stare in disparte. Vedevo i maschi guardare sgomenti i seni ormai sbocciati delle mie amiche e volevo morire, sprofondare, essere risucchiata dalla polverosa terra riarsa. Io, che invece avevo ancora due minuscoli bottoncini sotto la canottiera bianca, li guardavo umiliata.

Nina, veni cà (vieni qui).

Andai obbediente dalla nonna di Clara.

Nu misi nci dugnu, e ti zumperanno tutti i supa. (Nel tempo di un mese, ti salteranno tutti addosso)

Mi sorrise, col suo sorriso di cartapesta e io feci altrettanto.

Entrai in una stanza male illuminata. Con candelieri finti alle pareti. Con scritte stampate sui muri: “Pentitevi prima che sia troppo tardi”, “la verginità è una virtù che spalanca le porte del paradiso” e altre amenità e mi chiesi che c’entrava la nonna di Clara con questo posto orrendo.

Non la riconobbi. Pensai inorridita che la morte ti trasfigura i lineamenti e che un giorno sarebbe toccato anche a me stare lì, morta e irriconoscibile.

Una, che credetti una parente, mi si avvicinò e mi disse in maniera grave e solenne:

– Era una gran persona, non è vero?
– La migliore. Mi ha dato fiducia quando non l’avevo.

La signora s’impensierì. Gli angoli della bocca invece di salire, si catapultarono verso il basso e percepii una sottile tensione. Non sapevo bene come continuare. Forse era troppo misera come commemorazione. Continuai mettendoci più enfasi.

– MI ha detto le parole giuste quando serviva. MI ha fatto sentire speciale.

L’effetto fu anche peggiore del precedente. Con la faccia stupita, a punto interrogativo, mi chiese:

– Perdonami cara, ma quando te le avrebbe dette queste cose?
– Quando ero una ragazzina.
– Una ragazzina? Cioè? – lasciando trapelare lo smarrimento –

Non so perché cominciai a sudare freddo. Cos’erano tutte quelle domande. Cosa stavo dicendo di sbagliato?

– Sì, insomma, mi ha fatto sentire bella come nessuno mai prima.

All’improvviso un pianto dirotto e disperato la scosse. Come fosse una ragazzina lei, adesso.
Singhiozzava violentemente e io ero senza parole. Non avevo idea di chi fosse quella signora.
Un istinto primordiale di autoconservazione mi suggerì, non so come, di aggrapparmi a qualcosa di reale e mi misi a leggere, sul manifesto ai piedi della cassa, il nome della morta.

Del morto!
Ottavio Romano. Bel nome. Ma non il “mio” nome e non “la mia morta”.
Avvampai.

Uscii farfugliando inutili scuse, cercando di chiarire la mia posizione ormai compromessa e compromessa anche quella del morto, che poveretto non poteva nemmeno difendersi, il cui ricordo sarebbe stato per sempre offuscato per colpa mia che nel frattempo avevo cominciato a ridere in maniera sconveniente e inopportuna. La vedova mi guardava andare via, sconcertata.

Scoprii così che la “Casa della pietà misericordiosa” aveva tante casette e che dava riposo a più “ospiti” contemporaneamente.
Ma mettete indicazioni più chiare se è così che funziona!

Entrai finalmente nella casa giusta, senza finti candelieri alle pareti e soprattutto senza scritte da Medioevo sui muri, e mi trovai di fronte quattro generazioni di donne.

La morta, nonna della mia amica. La mia amica, sua mamma e sua figlia.

Nonna e nipote erano sedute accanto. Stessa corporatura. Stessi occhi neri come pece e stesse labbra carnose. La nipote però sovrastava la nonna di almeno quaranta centimetri e l’effetto era un po’ matrioska. L’anziana aveva i capelli neri corvini raccolti a treccia sulla nuca. La giovane li portava rosso fuoco, tagliati all’altezza delle spalle, se la guardavi da destra. Se la guardavi da sinistra, completamente rasati. Vestita di nero d’ordinanza la nonna. Mentre la nipote indossava una felpa sempre nera ma con una scritta al centro bianca: FUCK YOU! Tutto maiuscolo. Jeans, manco a dirsi, strappati. Le unghie verde fluo.

Erano uno spettacolo. Le guardavo ipnotizzata.

MI raccolsi un attimo in silenzio, pensando a quello che avevo da dire alla morta, per salutarla, ma avevo già detto tutto a Ottavio e quindi non avevo altro da aggiungere.

Io e Clara volevamo invece dirci tante cose. Sembrava non fosse né il luogo né il momento adatto ma fu lei che si avvicinò per prima e mi abbracciò. Cominciammo a parlare a bassa voce, quasi sussurrando, di quello che ci era successo in quegli anni, come se non fosse passato tutto quel tempo. Come fosse stato solo ieri.

– Mio marito voleva prenderti a schiaffi, appena ti ha vista al nostro matrimonio con quel vestito da “poco di buono”.

Erano passati quindici lunghi anni. Si erano sposati il 14 febbraio. Di San Valentino. Avevano voluto celebrare il compleanno di Clara e il matrimonio insieme. E l’occasione, il colore e l’abito mi erano sembrati quelli giusti.

Questa era la prima volta che parlavamo da allora.

Ed era vero. Mi vergognavo da morire adesso. Non mi capacitavo di come avessi potuto osare tanto. Io che, anche a sedici anni, pur potendomelo permettere, non avevo mai esagerato nel mettermi in mostra.

Al loro matrimonio ero invece stata ai limiti della decenza. Avevo quel maledetto vestito rosso fuoco, e sì aveva ragione il marito. Mi guardavano tutti. Ma io mi sentivo pura e innocente e dalla parte della ragione. Anche se devo confessare, ero single e avevo una gran voglia di divertirmi.

Lo feci. E il marito, fresco di pacco, della mia amica si incazzò ancor di più appena scoprì che mi ero portata a letto un “di lei lontano parente”.

Non so, forse il fatto che fossi l’amica intima della sua, ipoteticamente ancora casta, sposa lo indispose.  Ma non me ne curai allora e men che meno oggi. Davanti alla vecchina morta mi dissi che era stata una serata memorabile. Più che soddisfacente. E che la nonna di Clara avrebbe approvato. Anche se poi si scoprì che il “di lei lontano parente” era pure fidanzato, che “scemunito”, ma vabbè. Cose che capitano.

Ricordammo insieme la faccia stralunata di sua suocera quando mi chiese ingenua: quello è il tuo ragazzo, cara?

E io, che non vedevo l’ora nella vita di poter usare una frase tratta da uno dei miei film preferiti, risposi candidamente: no no, lo uso solo per il sesso!

– Ah bene!

… scappò detto alla suocera prima di capire cosa avevo effettivamente risposto, per poi improvvisare un mancamento da vera bigotta. Miracolosamente si riprese in pochi istanti e come posseduta da satana cominciò a insultarmi e io, attonita, mi chiesi perché a questa sconosciuta o al mondo intero fregasse tanto con chi andassi a letto io.

Cominciammo a ridere e Clara mi tirò per un braccio e mi portò fuori dove, camuffando le risa con un pianto disperato, chiunque la incontrasse si meravigliava e riteneva forse un po’ esagerata e fuori luogo questa “disperazione” per la vecchina. Che sì, era la nonna, ma già ultracentenaria, morta nel sonno, nel suo letto, con un bel sorriso stampato in faccia che le durava tuttora.

Clara, soffocando le risate, si beveva le lacrime e accettava le condoglianze con una sacralità e una dignitosa compostezza che non le riconobbi nemmeno quando ci diedero la prima comunione, cosa a cui aveva tenuto tantissimo.

Ora eravamo qui, l’una di fronte all’altra e io ero stata per tanto tempo arrabbiata con lei. Tremendamente arrabbiata. Perché aveva lasciato che il marito s’intromettesse tra di noi e mi aveva messo da parte. Perché ogni compleanno passato senza il suo “auguri piccolo soffio del mio cuore” era stato meno bello. Perché pensavo a tutte le volte che l’avrei voluta accanto, per ridere, piangere, rimproverarmi e fare le sceme.

Eravamo un po’ tristi per davvero adesso. E mi venne in mente che magari anche lei stava pensando le mie stesse cose. Che forse anch’io avrei potuto provarci di più. Fare meno la vittima, “quella che se la prende”. Avrei potuto, dovuto, alzare il telefono e chiamarla. Nonostante il marito.

Le accarezzai la guancia e le diedi un bacio. Allora mi resi conto che il silenzio certe volte, non bastava, anche se ci si era capite. Ero sempre stata quella che dosava troppo le parole. Ma bisognava anche dirle, a chi se le meritava, quelle giuste.

– Mi dispiace tanto, Clara.
– Anche a me.
– Buon compleanno, piccolo soffio del mio cuore.
– Grazie – mi rispose sorridendo.

Era oggi il 14 febbraio, San Valentino.

Mi alzai per andare.

– Nina?
– Dimmi.
– Mi chiami?
– Ti chiamo.

© Testo – Lyes

Immagine di Claudette Gallant da Pixabay (con relativa licenza)

Donna con il fucile - foto di Martin Kollar (modificata)

Il vuoto nella canna

:: di Stefano Angelo ::

Fish and chips

Mi ritrovo seduta al tavolo di un fish and chips, tenendo tra le mani una tazza di tè irlandese per cercare di incontrare un po’ di calore.

Dall’altro lato del tavolo non c’è nessuno. Solo un oggetto inconsueto appoggiato in bella vista, come fosse l’arnese più banale del mondo. Invece no. Si tratta di un fucile. Forse un fucile da caccia, di quelli a otturatore girevole. Così mi hanno detto.

Ho una sensazione di disagio, di nausea e una rabbia celata da uno sguardo perso nel vuoto.

Dopo un po’, fisso il fucile. Lo avevo trovato sulla soglia di casa qualche giorno prima. Lasciato da chi? Da mio fratello…

Intanto rimugino sulla cosa che mi aveva irritata di più: non era quell’arma, apparentemente più ossidata di me, ma il biglietto che l’accompagnava e che non ho ancora avuto il coraggio di strappare.

Il calore della tazza inizia finalmente a sortire qualche effetto mentre un’accozzaglia di pensieri intasano il mio cervello. Io non vorrei uccidere lui, mio fratello, con quel fucile ossidato e carico del mio dolore. Ma suo figlio, mio nipote. Un ragazzo (fastidiosamente) perfetto, (apparentemente) adorabile, con tanta gioia di vivere; dicono. Non so se lo amo, almeno un po’. Ma so che odio mio fratello. Alla follia. Il nipote sarà la mia lama, la mia vendetta. Che deliri…
Intanto medito sul dopo. Sulla sofferenza inflitta a mio fratello. Sulle sue lacrime. Sul suo sudore. Sul vuoto. Suo. Mio. Di entrambi.
In alcuni momenti immagino lo sparo, l’odore della polvere, il rumore assordante. Un fischio nella testa mi disturba. Resto attonita. Penso alla vita interrotta. Ma è un lampo. Poi ripenso a mio fratello. A quanto lo odio, a come lo odio e a quanto soffrirà con me.

Penso alla mia vita bruciata. Penso a mio padre, che se ne è andato molto prima, sfuggendo alla mia croce.

Penso alla mia casa. A come era prima che si ammalasse mamma. A come era durante la malattia, con un letto in cui era apparsa una crocifissa, con le scatole di medicine sparse ovunque. Penso al disordine, agli odori. Penso alla routine a cui ero costretta, ai tempi scanditi da esigenze non mie, alle inutili visite dei dottori.

Penso a me, al figlio che avrei potuto avere… mi si annebbia la vista. Resto catatonica, per diversi istanti.

Una voce un po’ stridula mi ridesta dal mio torpore. È la cameriera che mi chiede se voglio qualcosa da mangiare. Un cheesecake, rispondo meccanicamente. In fondo non ho nemmeno fame. In fondo ho le budella attorcigliate. Nell’attesa piombo di nuovo nel mio passato…

* * *

Passeggiate

Le mie giornate erano tutte uguali, da sette anni oramai. La casa era sempre più vuota e sporca, dopo la morte di mio padre. Il giardino era uno schifo. Le erbacce invadevano in maniera arrogante i miei spazi. Tutti i colori intorno a me erano sbiaditi. Anche io ero sbiadita. I miei occhi guardavano in maniera sfuggente la mia immagine nello specchio. Non ero più io? No, non ero più io.

A trentotto anni avevo dovuto lasciare il mio lavoro per occuparmi “meglio” di mia madre. Il mio lavoro di maestra mi piaceva, forse. Già non lo ricordo più. Ma almeno, al mattino, prima di uscire di casa mi lavavo, mi vestivo in maniera pensata. Ero decorosa e rispettata. 
Pochi alunni in quella cittadina persa nella polvere, avevano un futuro incerto ma questa consapevolezza non mi demotivava. Alcuni bambini, con le loro famiglie, se ne erano già andati, la vita nei campi era dura e la fabbrica di armi della città vicina era una promessa.

I negozi lì luccicavano. Le vetrine erano colme… Ci andavo spesso e mi piaceva vedere il mio riflesso per niente sbiadito in quelle vetrine. Mi piaceva proprio andare in quella città. Era una promessa anche per me.
Lì viveva un avvocato di origine russa. Si era trasferito nella Città delle armi (così la chiamavo) dopo la Grande Guerra. Si chiamava Nikolay Melnikov. Melnikov significa mugnaio, ma ero l’unica a saperlo in quella città. Era serio, imponente. La sua mole un po’ intimidiva. Era abile, molto abile. Aveva fatto amicizia con il sindaco e aveva già molti clienti. Nella Città delle armi si scatenavano diverse dispute. In altri tempi non ci sarebbe stato bisogno di un avvocato, pensavo. Oggi sì.
Con Nikolay passeggiavamo spesso per le strade della Città delle armi, perfettamente asfaltate, perfettamente illuminate, soprattutto nei giorni di festa. Passeggiavamo sfiorandoci spesso, senza mai toccarci in maniera evidente. Era prematuro. Eravamo due persone rispettate. Con un ruolo, un obiettivo, un senso. Ma i dorsi delle nostre mani si cercavano e si incontravano. Complici. E bastava questo per farmi stare bene.

* * *

Il giardino

Grande Guerra a volte ripetevo nella mia testa. Cosa avrà mai di grande una guerra. Io ero mite, a quel tempo. Coltivavo il mio giardino con precisione maniacale. Nessun cespuglio invadeva l’area del vicino. Io non invadevo l’area di nessuno. Ero riservata. Il mio sguardo non era ancora schivo. Scrutavo in maniera discreta le cose e le persone. Pensavo di capirle ma preferivo gli animali. Avrei voluto un laghetto con dei pesci. Non sapevo ancora che tipo di pesci. Piccoli, silenziosi, non invadenti. Ne avevo parlato timidamente con mio padre. Ancora mi metteva soggezione. Parlava poco, meno degli altri reduci. Spesso era assente. Non avrò mai lo sguardo come il suo, pensavo.

* * *

La prigione

Le mie giornate trascorrevano serene. La mia routine lavorativa mi piaceva.
Ma ultimamente mi piacevano di più le passeggiate nella Città delle armi. Lui non veniva mai qui. A lui non piacevano le strade polverose. A lui piacevano le camicie ben stirate, le cravatte e aveva una passione smodata per le bombette. Adorava quei cappelli… e io adoravo lui. Ma poi, tutto cambiò. Quando mamma si ammalò il mio tempo libero si sfumò. I primi tempi della malattia passavo i pomeriggi nei centri medici e nelle farmacie. I fine settimana, invece di andare a trovare Nikolay, provavo a scrivergli delle lettere. Non sempre ci riuscivo. Lui i primi tempi mi rispondeva, poi meno, poi in maniera distratta. Mio fratello, sfuggente, quasi mai mi concedeva un fine settimana di riposo. Lui aveva la sua famiglia, il suo lavoro.

In uno di questi fine settimana “liberi” riuscii ad andare da Nikolay. Notai subito, dal suo sguardo, che qualcosa era cambiato. Era rigido, forse per nascondere il suo imbarazzo. Provai ad avvicinarmi a lui e percepii un odore estraneo, un profumo di donna appiccicato sulla sua camicia. Ricordo un brivido e la sensazione di un pugno nello stomaco. Ancora, però, conservavo il mio orgoglio. Tornai a casa senza batter ciglio. Ancora il mondo non mi era caduto addosso e mantenevo viva la speranza di una riscossa. Mi sbagliavo.

La malattia di mia madre peggiorò. Nel giro di poco non fu più capace di alzarsi dal suo letto. Mio fratello, con un sorrisetto difficilmente interpretabile, appoggiò subito l’idea di mio padre: dovevo lasciare il mio lavoro. Ero l’unica che poteva occuparsi di mamma. Io, solo io. Il mio senso del dovere, verso la mia famiglia, mi impedì di vedere le conseguenze e diedi le dimissioni. L’adrenalina si alternava alla frustrazione. Poi i sensi di colpa, anche verso i miei pochi alunni, ma prima viene la famiglia, mi dicevo.

* * *

Il fantasma

Dopo alcuni mesi mio padre morì, in maniera silenziosa, senza preavviso, durante una notte un po’ afosa. Gli ultimi anni con lui non erano stati di certo piacevoli ma nemmeno spiacevoli. Semplicemente era assente. Si affacciava di tanto in tanto da uno stipite della porta della stanza in cui viveva mia madre, senza mai entrare, senza mai parlare. La guardava per qualche istante per poi sparire nel buio del corridoio. Non lo notavi arrivare e non lo notavi andare via. Percepivo a volte il suo sguardo ma ormai non mi giravo più verso di lui, per invitarlo a entrare. Vagava per casa. Ultimamente non usciva nemmeno più in giardino. A volte gli portavo da mangiare in stanza, quando non si presentava spontaneamente a tavola all’ora abituale. Quasi lo preferivo. Stare a tavola con un fantasma, che nemmeno ti guarda, mi metteva a disagio. Stringevo forte le posate, ma non avevo il coraggio di rivolgergli la parola. Ero stufa di non ricevere risposte. Da un lato lo compiangevo per i traumi subiti in guerra, dall’altro lo odiavo per la sua rinuncia alla vita. Possibile che nella nostra casa non avesse trovato nessun conforto? Nessun motivo per reagire? Per riprendere a vivere? Almeno un po’.
Così dopo la sua morte non dico che mi sentissi sollevata, ma nemmeno affranta.
E poi c’era ancora mia madre. Dovevo ancora pensare a mia madre.

* * *

La morte

La morte di mia madre arrivò cinque anni dopo quella di mio padre. Una morte diversa. Tra spasmi e lamenti. Bava e rantoli. Alla fine la sua faccia rimase quasi pietrificata in una smorfia di dolore. Non ebbi, alla prima, il coraggio di pulire e ricomporre il suo viso. Non volevo più toccarla. Dopo che per anni mi ero occupata di lei, di tutto il suo corpo. La parte più profonda di me non ne poteva più, malgrado l’amore.
Era finita, ma ero finita anche io. Libera? Di fare cosa? Mi sentivo come un recluso che dopo trent’anni viene sbattuto fuori dalla prigione. Il trauma di uscire, da una tua prigione, a volte è più duro di quello che hai provato al momento di entrare… Con un dolore si può imparare a convivere, ti puoi convincere della sua “necessarietà”. Ma quando te lo tolgono all’improvviso? Che fai? Hai le forze per reagire? Per tornare a vivere? In quel momento vedevo, capivo, mio padre… ma la cosa per nulla mi allietava.

* * *

Il testamento

Qualche settimana dopo venni convocata insieme a mio fratello dal notaio. Ero distrutta, logora e non solo per il dolore. Mio fratello aveva sempre quel sorrisetto un po’ impertinente. Mi dava fastidio anche il suo modo di “darmi coraggio”, come se la donna morta da poco non fosse anche sua madre. Ma c’era qualcos’altro, anche se ancora non riuscivo a capire.
Il notaio, in maniera solenne, iniziò il suo rito, dopo averci spiegato alcuni dettagli sulla procedura. Prese un elegante tagliacarte, d’argento, con un manico ricco di incisioni e iniziò ad aprire la busta. I suoi movimenti erano lenti, troppo lenti. Io non vedevo l’ora di fuggire via da quella stanza e di rinchiudermi nuovamente nella “mia” casa.
Finalmente, dopo aver disteso il contenuto del plico sulla sua scrivania, il notaio diede inizio alla lettura. Ascoltavo e non ascoltavo. Ero in uno stato di torpore. Pensavo fosse una pura formalità e continuavo a sentire forte l’impulso di andar via. Il mio disagio nel “mondo esteriore” era già marcato. A fatica mi ero ricomposta e vestita in maniera decente per l’occasione. Mio fratello era impeccabile come sempre e stranamente rilassato. Ecco ci siamo, il notaio stava per concludere ma la frase finale mi diede un sussulto.
La maggior parte dell’eredità andava a mio fratello. A me restava solo la parte legittima. Ma come? Dopo anni di sacrificio, nemmeno il “diritto” all’equità!
Cercai di balbettare qualcosa. Ma non avevo nemmeno la forza per protestare. E poi, cosa mai avrei potuto dire o fare rispetto alla volontà, presunta, di mia madre. Pensai per pochi istanti a Nikolay, avrei tanto voluto un braccio, in quel momento, su cui appoggiarmi. Mi alzai, invece, barcollante con le mie poche forze e mi trascinai senza fiatare verso l’uscita.

* * *

Fish and chips (parte seconda)

Mi ritrovo adesso nel fish and chips, con quel fucile e con quel biglietto. Con una gran voglia di piangere ma non ho più lacrime da spargere per nessuno, nemmeno per me. Sul biglietto, scritto a mano, una sola parola: sparati. Come se la mia vita fosse già finita e priva di valore. Sarà anche così, ma che sia un’altra persona a ricordarmelo e a propormi una “soluzione” mi manda fuori di cervello.
Sul dorso del biglietto una seconda opzione: quel cane di mio fratello, pieno del suo ego e del suo egoismo, mi invita a lasciargli la mia parte di casa il prima possibile, in cambio di una modesta cifra. Ma io non sono obbligata a vendergli la mia parte. Ma che diamine deve farsene di un’altra casa! Lui già ha la sua, comprata in parte con i soldi di mio padre, di nostro padre. La sua avidità mi lascia sbalordita. Come avrà fatto a convincere mia madre. Forse con la bella faccia del nipote?

Poco dopo la morte di mio padre, avevamo convenuto che l’eredità di mia madre sarebbe stata divisa equamente e che con i miei risparmi avrei poi potuto comprare la parte della casa di mio fratello. Insomma, la casa sarebbe toccata a me. Quando mio fratello fece firmare a mia madre il testamento e lo portò dal notaio io mi fidai. Pensavo ingenuamente di conoscerne il contenuto. Perché mi fidai?

Una parte di me ribolle di rabbia, come un magma represso e compresso nelle mie viscere. Ma sono ormai troppi gli strati di apatia da attraversare. Così mi ritrovo seduta da sola, in compagnia di un oggetto estraneo, a questo tavolo, con le mani intiepidite da una tazza di tè e con lo sguardo perso nel vuoto, nascosta da inutili strati di fard appiccicati sul mio volto in maniera distratta. Mi ritrovo aspettando… senza sapere esattamente cosa.

[come potrebbe continuare la storia? O va bene così? Ci sto pensando, lavori in corso]

© Testo – Stefano Angelo
:: Editing a cura di Salvina Pizzuoli ::
Immagine di copertina di Martin Kollar, modificata.

:: Nota: Questo racconto, ispirato da una foto (di Martin Kollar) mostrataci da Mattia Grigolo durante un suo corso di scrittura creativa del 2019 (organizzato da ItaliaAltrove Francoforte), è un frammento di una raccolta – I racconti della donna con il fucile – che avrebbe dovuto dare vita a una pubblicazione cartacea. Purtroppo, causa COVID e impedimenti vari, il progetto si è arenato. Di tanto in tanto pubblicheremo alcuni di questi frammenti per rievocare un’esperienza, quella del corso, che ha comunque dato il “la” a nuove avventure su questo blog ::

Donna col fucile, di Martin Kollar

Happy days

:: Alessandra Facciolo ::

Le note graffianti di Streets of Philadelphia mi accolsero all’entrata del locale, “non può essere una brutta giornata se la condividi con il Boss”, mi dissi accomodandomi al solito tavolino un po’ defilato. La cameriera, con il grembiulino bianco e la divisa rosa, arrivò con il caffè caldo e la tazza e li posò sul tavolino senza parlare.

“Grazie” sorrisi, poi tirai fuori dalla grossa borsa il pesante involucro e, con delicatezza, cominciai ad aprirlo. Tolsi prima il nastro, poi la carta grigia che lo avvolgeva e infine lo sollevai e contemplandolo lo appoggiai davanti a me, lasciandolo lì in bella vista. Con cura ripiegai la carta, riavvolsi il filo e li riposi nella capiente sacca vicino a me.

Bevvi con calma il pessimo caffè, ancora tiepido, osservando il locale oltre il bordo della tazza. Non c’era nessuno a quell’ora e la cameriera era ancora occupata dietro al bancone a sistemare tazze e bicchieri usciti ancora fumanti dalla lavastoviglie. Un uomo, vicino alla porta, beveva una birra. Fuori, sulla grande strada polverosa, passavano poche macchine, per lo più dirette verso il centro della piccola città. Nessuno passeggiava sullo stretto marciapiede. A quell’ora, normalmente, tutti si affrettavano verso casa, per preparare la cena e godere, in pantofole, delle ultime ore del giorno.

Quando più tardi la ragazza prese la tazza ormai vuota e passò oltre senza disturbarmi, neanche me ne accorsi. Tenevo lo sguardo fisso davanti a me: sul tavolo e su quell’oggetto posto quasi a distanza di sicurezza. Certo, doveva averne viste quella ragazza per non fare neanche il minimo accenno riguardo all’oggetto posto sul mio tavolo. Ma in quel momento ne apprezzai la discrezione. Non mi sentivo pronta a rispondere a domande o a dare spiegazioni. Non ne avevo neanche per me.

“Che curioso contrasto” pensai invece, stupendomi della frivolezza dell’immagine, “un vecchio fucile da caccia su un tavolino rosa e azzurro di un locale anni ’50”. Alzai gli occhi guardandomi intorno, “chissà che effetto faccio”, mi dissi, “una vecchia signora sola, vestita in modo discutibile, davanti a un fucile e una lettera, in un tripudio di colori pastello”.

Il mio aspetto lasciava un po’ a desiderare. Ero uscita senza guardarmi allo specchio, vestita come per casa, e i miei capelli… sì, decisamente avevano bisogno di una messa in piega o almeno di una pettinata! Da quanti giorni non lo facevo più? Dovevo aver perso il conto. Che cosa mi avesse spinta ad uscire da quella casa all’imbrunire ora non lo rammentavo neanche più, ma ormai ero lì, lo avevo fatto e tanto bastava.

“Surreale” mi ritrovai a pensare. Sì, decisamente la situazione lo era.

Era la prima volta, dopo esattamente quindici giorni, che avevo abbandonato le quattro mura della mia stanza, che avevo aperto la porta. Era stata dura lasciare il letto, uscire allo scoperto. Non avevo impegni, niente scadenze, nessun appuntamento. Non avevo intenzioni bellicose, anzi. Non avevo desideri di riscatto. Piuttosto mi resi conto di aver bisogno d’aria. Sì, proprio di aria fresca! Mi ero diretta in strada, verso il parco, salvo poi allontanarmene in fretta alla vista della varia umanità che a quell’ora lo popolava. Proseguii lungo la strada e senza rendermene conto mi ritrovai davanti a quel caffè. Non avevo voglia di rimestare nei ricordi, né di ripercorrere luoghi e pensieri. Forse avevo solo bisogno di scoprire che, nonostante il “mio personale terremoto”, il resto del mondo era rimasto saldo, fermo, indifferente.

Questo mi dissi varcando la soglia.

Ma ora che, seduta, contemplavo il menu del giorno senza leggerlo, lo sconcerto che mi aveva avvolta e riempita nei giorni precedenti, lasciò il posto a un grande vuoto. “Sono sull’orlo del baratro o magari sono al nastro di una partenza o, forse, solo all’inizio di un esaurimento nervoso… prima o poi deciderò” mi dissi. I pensieri si affastellavano senza ordine apparente. Non era la solitudine, che ora avvertivo chiaramente, a spaventarmi, quanto piuttosto il dover riprendere in mano il timone della mia esistenza, ridirezionare il viaggio e riprendere a navigare. Improvvisamente, da un cassetto della memoria saltò fuori una frase da uno dei miei film preferiti: “… è strano come le situazioni si impongano anche quando non le vuoi…” L’avevo sempre amata quella frase e mai come ora la trovai calzante, perfetta per ciò che mi stava accadendo. Certo, la decisione finale non era stata la mia, mi era stata piuttosto imposta, l’avevo subita, e mi ritrovai a chiedermi quando era cominciato il lento abbandono, quando avevamo cominciato a perderci senza renderci conto di quello che ci stava accadendo. In tutta coscienza non potevo dirmi sorpresa, ma, confidando nella solita e inveterata inerzia che sfociava spesso nell’apatia, mi ero assuefatta all’idea che la mia vita continuasse nel consueto solco fatto di quotidianità, televisione, qualche libro, un po’ di musica e poche parole, per lo più inutili.

La malinconica dolcezza del tramonto predispose il mio animo a pensieri poco bellicosi e più meditativi o forse meditabondi. Fissando il fucile di fronte a me, rividi quel negozio di tanti anni fa, ripensai a me stessa e all’entusiasmo ancora giovane di un’assolata mattina di primavera, al campanello della porta e alla penombra ingombra di passato e di ciarpame che mi aveva accolta appena varcata la soglia. Sapevo già cosa volevo e lo indicai sicura al vecchietto che mi scrutava dietro le lenti sporche appoggiate sulla punta del naso: un vecchio fucile da caccia, risalente forse alla Guerra di Secessione o magari all’epoca della febbre dell’oro, un residuato bellico dimenticato da un paio di secoli. L’avevamo visto un paio di giorni prima in vetrina, mentre passeggiavamo pigri per la città, io avevo colto il lampo di curiosità nei suoi occhi e avevo deciso di regalarglielo per l’imminente anniversario. Una novità quel regalo nella quiete monotonia delle nostre abitudini: un mazzolino di rose, un dolce e un bacio accennato, questo era il copione consueto dei pochi eventi da calendario. La sua faccia stupita alla vista dello Springfield ripulito e lucido era stata la mia migliore ricompensa, l’avevo decisamente sorpreso e anche felicemente. Negli anni successivi l’avevo visto spesso smontare e rimontare l’arma, ripulirla e ammirarla; l’aveva persino rimessa in funzione e si era spinto fino a un poligono di tiro per provarla, tra la curiosità e l’ammirazione di tutti. Lo Springfield in casa faceva bella mostra di sé sopra il caminetto, al centro della casa. E lì era rimasto negli anni, a lui il compito di spolverarlo, pulirlo, oliarlo e riporlo di nuovo al suo posto d’onore. Anche il fucile, come tutto il resto, era entrato nella monotona consuetudine delle nostre vite.

Eppure ero convinta che non se ne sarebbe mai privato, c’è chi si affeziona a un cane, a un gatto, a una moglie persino… c’è chi non si separa da un libro, da un vaso cinese, lui aveva il suo fucile, compagno dei suoi pensieri, testimone privilegiato della commedia della nostra vita coniugale. Certo come “sit-com” lasciava un po’ a desiderare: statica, sicuramente, pochi dialoghi, spesso ripetuti, sicuramente banali. Ma era la nostra vita.

E invece se ne era andato lasciandolo lì al suo posto, come me d’altronde, ma non era stata una dimenticanza, no al contrario: era stata una scelta precisa, l’ultima vigliacca stoccata. Sì, perché attaccato al calcio avevo trovato un biglietto scritto di suo pugno: un cartoncino doppio, uno di quelli che conservavamo nel cassetto in alto a destra della scrivania, uno di quelli che si usavano per gli auguri per le feste, per i compleanni o per le condoglianze. Lui ne aveva scelto, o più probabilmente preso a caso, uno a tema pasquale: pulcini e uova colorate, un’atmosfera primaverile, di festa, che invitava alla pace e che cozzava pesantemente con le poche parole scritte di fretta con la sua consueta grafia un po’ storta: “Non ne ho più bisogno, la guerra è finita”.

Che cosa intendesse dire non mi era chiaro, non comprendevo il senso di quelle parole e neanche i sottintesi. Ma ciò che, invece, avevo afferrato immediatamente era la stilettata velenosa, l’acredine, quell’astio che mi era arrivato come un pugno allo stomaco. Da dove si originasse quella rabbia non lo capivo, così come ne ignoravo totalmente le ragioni.

Nei primi momenti di sconforto e smarrimento avevo ripercorso dapprima le ultime settimane, poi i mesi e poi gli anni alla ricerca dell’origine, della sorgente di tutto, ma non avevo trovato nulla.

Possibile che non mi fossi accorta di niente?
Che ormai, così assuefatta alla quotidianità, non mi fossi resa conto che qualcosa stava cambiando?
Che il leggero venticello stava silenziosamente evolvendo in tempesta?
O forse non avevo voluto cogliere io stessa le avvisaglie, possibile che fossi stata così cieca?
Cieca lo ero stata sicuramente, ma scema no!

Qualcosa era successo e decisi di scoprirlo, anche se ci avrei impiegato il resto della mia vita. Tempo ne avevo. Ma da dove cominciare?

Mi sentii improvvisamente un naufrago approdato in terra straniera, senza più radici né punti di riferimento. Mi sentii tanto piccola in una vita tanto grande ed ebbi pietà di me stessa. Mi vidi lì, sola, persa, indifferente alla pioggia degli eventi che mi erano piovuti in testa. Nel frattempo un nuovo sentimento si faceva spazio nella mia anima confusa: una dolce malinconia che colmò la mia ansia e mi permise, finalmente, di piangere. Piansi a lungo, piansi in silenzio, piansi grosse lacrime che, scendendo lungo il viso, si raccolsero nelle mani chiuse in grembo. Quando ebbi esaurito tutta la mia scorta, rialzai la testa e mi guardai intorno cercando di vedere oltre il velo del pianto. Nulla era mutato all’interno del locale, la cameriera era ancora dietro il bancone e leggeva una rivista, concentrata sulle ultime novità da Hollywood. L’uomo vicino alla porta si era assopito sul boccale ormai vuoto. Anche la musica si era interrotta, e nell’aria rimaneva solo il ronzio continuo del neon che illuminava sinistramente metà del locale.

Era ora di tornare a casa. Aprii la borsa e cercai una banconota che lasciai sul tavolo sotto il portacenere trasparente. Poi tirai fuori la carta grigia e, di nuovo, incartai il mio muto compagno riponendolo nella grande sacca con cura. La strada verso casa non mi era mai parsa così lunga. Camminando veloce mi guardavo intorno, circospetta, all’inizio timorosa di incontrare volti noti a cui avrei dovuto, necessariamente, fornire spiegazioni che non avevo. Poi rallentai, ammaliata dalla luce sbieca del crepuscolo e mi chiesi con stupore se le strade, gli alberi, le facciate delle case potessero avere, anche loro, una memoria. Se potessero conservare il rumore dei passi, i richiami delle madri, le risate degli amici, i sussurri degli amanti o se anche tutto questo fosse destinato a perdersi, nel silenzio sospeso del crepuscolo.

Alla luce ormai incerta della sera mi fermai sul ponte del piccolo fiume che attraversava la città. Appoggiata al parapetto vidi ciò che era rimasto del mio matrimonio cadere in acqua e affondare, mentre il biglietto, galleggiando, proseguiva la sua corsa solitaria trascinato dalla corrente. Quando, poco dopo, scomparve anche lui nell’oscurità, ripresi la strada del ritorno.

La casa mi accolse, buia ma familiare: il giardino ben curato, la staccionata bianca e il porticato con il dondolo di legno e i cuscini a fiori. La caraffa del tè di vetro blu con i grandi bicchieri colorati era rimasta sul tavolino di ferro battuto vicino alla porta. Una lunga scia di piccole formiche approfittava della mia assenza, banchettando con le briciole sul pavimento di assi della veranda. In una giornata normale mi sarei precipitata a ripulire, ma in quel momento mi limitai a guardarle e, dopo averle scavalcate avendo cura di non disperderle, entrai in casa.

Mi sedetti sui primi gradini della scala di legno davanti alla porta e lì rimasi in attesa, con la testa appoggiata di lato alla balaustra bianca. Mi assopii e sognai sogni confusi e facce note. Quando, trasalendo riaprii gli occhi, lasciai che i battiti del mio cuore rallentassero e smettessero di rimbombare forte nella mia testa, prima di alzarmi e salire. Al buio, a tentoni, attraversai a passo sostenuto il lungo corridoio, aprii tutte le porte che incontrai lungo il passaggio e mi diressi spedita nella stanza matrimoniale, verso il grande armadio ai piedi del letto. Spalancai tutte le ante superiori e inferiori con forza, facendone gemere le cerniere, poi afferrai i cassetti e ne svuotai il contenuto sul pavimento in un tripudio di camicie dai colori spenti, cravatte regimental e completi di fresco lana. Poi passai alle magliette, alle polo, ai maglioni e alla biancheria intima. Solo quando ebbi scovato anche i fazzoletti, i pantaloncini per lo sport, le sciarpe, i cappelli e i costumi da bagno mi arrestai e, esausta, mi guardai intorno. Nel marasma generale intravidi un attimo, nel grande specchio sopra la cassettiera, la mia faccia. Nella corsa concitata non avevo neanche acceso le lampade e nella camera, appena rischiarata dalla luce giallastra del lampione sulla strada, mi sembrò di scorgere uno spettro: gli abiti in disordine, i capelli dritti e spettinati, gli occhi spalancati e lucidi sul viso scuro in penombra. Avevo ancora le scarpe e la giacca, la borsa a tracolla e la sacca sotto il braccio. Tutto appariva stravolto anche i gesti consueti e quotidiani erano saltati. Mi bloccai di botto e una risata mi risalì in gola e mi scoppiò in bocca: risi, risi tanto, risi forte, risi fino alle lacrime, risi accasciata a terra strappando camicie e lanciando calzini, calpestando giacche, rompendo bottoni. Lo feci a lungo, lo feci meticolosamente e, quando alla fine rialzai la testa, tutto mi apparve nuovo e possibile.

Improvvisamente leggera, spinta da una nuova forza mi sollevai da terra e, recuperati dei sacchi neri, li riempii di tutto ciò che ingombrava il pavimento, il letto e i mobili. Poi passai alle altre stanze e le svuotai di tutto il passato: oggetti, libri… Ogni sacco venne riempito e chiuso e a ogni sacco la medesima sorte: un lancio preciso dal primo piano nel giardino sul retro. A notte fonda una collina scura copriva la visuale del giardino dalle finestre della cucina, ma io non la vidi, i miei occhi erano proiettati oltre lo spazio ristretto della mia esistenza, verso un nuovo chiarore lontano, verso l’orizzonte.

© Testo – Alessandra Facciolo
:: Editing a cura di Stefano Angelo e Salvina Pizzuoli ::
Immagine di copertina di Martin Kollar, modificata.

:: Nota: Questo racconto, ispirato da una foto (di Martin Kollar) mostrataci da Mattia Grigolo durante un suo corso di scrittura creativa del 2019 (organizzato da ItaliaAltrove Francoforte), è un frammento di una raccolta – I racconti della donna con il fucile – che avrebbe dovuto dare vita a una pubblicazione cartacea. Purtroppo, causa COVID e impedimenti vari, il progetto si è arenato. Di tanto in tanto pubblicheremo alcuni di questi frammenti per rievocare un’esperienza, quella del corso, che ha comunque dato il “la” a nuove avventure su questo blog ::

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