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Passione per la scrittura
ESPLORA
Il temporale

Il temporale

:: di Maura Mollo ::

La luce a giorno e il boato fragoroso mi sorpresero in piedi, in quella casa troppo nuova per me ma già consumata dal tempo. Avevo aperto l’ultimo scatolone del trasloco soltanto poche ore prima e, nella confusione, non ricordavo dove fossero le candele, accessori vitali in situazioni come quella.

Arrancai come un cieco alla ricerca del divano: era inutile avventurarsi al buio. Mi accucciai sotto il piumone, che per fortuna avevo già sistemato per le serate fredde, e decisi che se la luce non fosse tornata avrei dormito lì. Dopotutto, avevo comprato quel divano perché era comodo come un letto.

La stanchezza e la pioggia mi fecero crollare e mi addormentai quasi subito. Un altro tuono, più forte di quello che mi aveva fatto rimanere senza corrente elettrica, mi svegliò all’improvviso, lasciandomi una sensazione di disagio sulla pelle increspata per una frazione di secondo. Mi appiattii il più possibile nell’incavo del divano per cercare calore e conforto. Strinsi a me il piumone e richiusi gli occhi, cercando di riaddormentarmi il prima possibile. Ma la mente aveva registrato qualcosa che gli occhi avevano fatto finta di non vedere, e adesso continuava a far scorrere nel cervello quella frazione di secondo, in cui il cuore aveva iniziato a martellare.

“È stato il tuono… e non conosci ancora la casa. Datti una calmata, non hai mica dieci anni!”

Fare la voce grossa con la mia mente mi aveva sempre aiutato a mettere le cose nella giusta prospettiva. Non avevo alcuna intenzione di dare spazio alla paura. Fra il temporale, la casa nuova e l’essere sola, alimentare immagini di pareidolia sarebbe stata la mossa più stupida da fare per il resto della notte. Eppure la mia mente non mi lasciava in pace: lampo e tuono quasi simultanei e i miei occhi aperti su una stanza ancora estranea; la parete di fronte abbellita con lo schermo gigante, effetto cinema per le serate relax; il tavolino accanto al divano, dove avevo già impilato alcuni libri da leggere; il corridoio sulla destra, troppo buio e sconosciuto; dietro di me la finestra, che si rifletteva sullo schermo nero della televisione; la figura di qualcuno in piedi, accanto al divano, che come la finestra si rifletteva sullo schermo nero…

Cercai di respirare, ma il mio corpo si era congelato. Niente aria, niente sangue, nessun battito. Rividi la sequenza nella mente, ancora e ancora: c’era qualcuno accanto a me.

No, impossibile. Abitavo al quarto piano, la porta di casa era chiusa e, nonostante la pioggia battente, se qualcuno fosse entrato mi avrebbe svegliata. In quella casa c’ero solo io…

O no?

Aprivo spiragli di soluzioni logiche per calmarmi, cercando al contempo di ripristinare una respirazione da sonno e un battito che non superasse il rumore della pioggia. Avevo solo un pensiero: tenere gli occhi serrati.

Ero tesa, pronta a cogliere il minimo rumore che non fosse l’acqua che continuava a picchiare sui vetri. Nessun fruscìo, nessun respiro, nessun movimento. Ma adesso, anche a occhi chiusi avevo la netta sensazione che quell’essere si fosse inginocchiato accanto a me e il suo viso fosse molto, troppo vicino al mio. Di nuovo la tensione divenne paralisi, di nuovo il sangue andò a nascondersi e il cuore s’inceppò. Qualunque cosa avessi fatto si sarebbe accorto che non dormivo, così rimasi immobile, sperando che il giorno e la luce arrivassero al più presto e senza rendermene conto mi addormentai di nuovo.

Mi svegliai lentamente, sentendo i muscoli finalmente sciogliersi. Era giorno, ma il cielo era ancora scuro per via dell’insistente brutto tempo. Le luci della stanza erano accese e adesso la casa mi metteva molta meno ansia. Andai subito alla ricerca delle candele, frugando in vari cassetti, e ne posizionai un paio su ogni tavolo, tavolino o superficie esistente. Diedi una disinvolta occhiata in giro, verificando di essere l’unica abitante di quell’appartamento. Quando tutto mi sembrò a posto, feci un bel respiro e mi preparai per uscire.

Al rientro, con le braccia piene di spesa e cianfrusaglie utili a iniziare una nuova vita, mi ritrovai a parlare da sola ad alta voce, come se volessi rendere partecipe dei miei acquisti la casa o chiunque mi stesse spiando. Perché la sensazione che ci fosse qualcuno continuò per tutto il giorno. Evitavo di guardare negli specchi, evitavo di girarmi di scatto, evitavo qualunque movimento repentino. Non volevo indispettire quell’essere, non volevo sorprenderlo e soprattutto, non volevo che lui sorprendesse me.

Col passare del tempo presi confidenza con la casa, non avevo più bisogno di accendere tutte le luci mentre mi aggiravo fra le stanze; la sensazione di non essere sola smise di farmi paura: continuavo a parlare ad alta voce e tutte le sere, prima di andare a dormire, sussurravo un “Buonanotte” amichevole. E tutte le notti, quando mi rigiravo nel letto, sentivo uno sguardo su di me, un volto molto, troppo vicino al mio.

© Testo e immagine – Maura Mollo

:: Editing a cura di edida.net ::

della stessa autrice: L’Equazione profonda del Mare

Quadro di Rosa Zerbo - Rosso - 2020

L’ultima prospettiva

:: di Daniela Alibrandi ::

È una mattina come tante altre, del genere che amo. Il cielo terso, l’aria frizzante e i tetti di Via Margutta accarezzati dal sole. L’odore dell’acquaragia non mi infastidisce più, e la tela che ho appena iniziato è il richiamo inconfondibile che non sono mai riuscito a ignorare e che mi porta ad alzarmi con l’unico desiderio di continuare a dipingere.

Era tanto che non sentivo un impulso così forte, una carica interiore talmente prorompente da farmi dimenticare la notte quasi insonne. Sveglio, finalmente pronto a ricominciare. Decido di mettere su un buon caffè il cui profumo, misto all’odore tipico dei colori a olio, crea l’inebriante elisir che ricordavo. E la soffitta, dove ho vissuto e dipinto, diviene adesso la porta tra le umane passioni e l’infinito distacco.

Un mondo vuoto, scevro di momenti e di materia, nel quale il mio animo fluttua e non riesce a scegliere da che verso aprire o richiudere l’uscio. È estate piena e l’alba vista dal terrazzo ricavato nell’abbaino non delude mai. È qui che sorseggio il caffè bollente, inspirando l’aria asciutta di un’estate romana, che potrebbe appartenere all’oggi o a un tempo lontano.

E mentre con lo sguardo indugio sulle tegole colorate e antiche, mi chiedo quanto sarebbe bello iniziare il quadro dalla fine, sapendo che sto per dare l’ultima pennellata su di una tela all’apparenza bianca, riscoprendone tratti e sfumature, che esistono ma che non riesco a mettere a fuoco. Mi tremano le mani e so che il momento di decidere se aprire o chiudere, se entrare o uscire, è inesorabilmente arrivato.

Mando giù gli ultimi sorsi di un caffè amaro, che scuote i miei sensi mentre brucia nella gola e nelle viscere e adesso lo so, senza dubbio, sto per morire. La mia stagione che sembrava infinita sta per scadere. Me ne sono accorto dall’impercettibile cambiamento del ticchettio dell’orologio, più cadenzato, isolato dai rumori dell’ambiente, lento, quasi inesorabile.

Non l’ho visto! Me lo sono trovato davanti e non sono riuscito a frenare… – grida, piangendo, il ragazzo del quale riesco a vedere solo le scarpe da ginnastica. Vorrei avvertirlo che gli si stanno inzuppando, che non doveva indossarle in una giornata piovigginosa come questa.

Anche il mio volto adesso è bagnato da una pioggia fitta e fredda e, se cerco di aprire gli occhi, vedo che gli antichi sanpietrini riflettono a specchio la luce languida dei lampioni sul Lungotevere.

Chiamate l’ambulanza! – gli fa eco la voce di una ragazza, argentina, acuta, mi fa male udirla. Vedo solo i suoi stivali lucidi e le calze a rete che salgono più su del ginocchio, verso le cosce magre. Non voglio che mi aiutino, vorrei essere solo lasciato in pace, perché era da tanto che desideravo conoscere e comprendere ogni verità, era ora che tutto si compisse.

Finalmente sono nel mio studio e posso dipingere qualcosa di eterno.

Passi frettolosi attorno a me, ma io sono già lontano e la gamma di colori che vedo è immensa, così come sembra infinita la quantità di azioni che sto lasciando in sospeso. Non c’è più spazio per le mie fughe e i miei silenzi.

Devo terminare la tela, prima che tutto finisca, e l’ultima pennellata deve essere la più forte, deve lasciare il colore in rilievo, anzi meglio ancora se è un colpo di spatola, talmente alto che potrebbe far scivolare la mano all’indietro.

In un baleno chi ha attraversato la mia esistenza è vicino a me, una moltitudine di occhi che mi scrutano, ma ancora non ho risposte alla loro muta domanda, che faccio mia, mentre mi chiedo perché mai non ho saputo o voluto esprimere ciò che provavo. Solo adesso, se avessi la forza, mi alzerei in piedi e griderei l’amore che ho taciuto, le lacrime di meraviglia che ho nascosto nel guardare il mare, i brividi che ho rinnegato scoprendo il sesso.

Mi alzerei, sì, e davanti ai loro sguardi increduli scuoterei forte quella ragazza che continua a urlare, isterica, dicendo che sembro davvero morto, che sono proprio morto. Le direi che la vita in fin dei conti non è altro che la finzione dell’essere. Che la morte alla fine è solo la verità del nulla. Che sì, è vero, adesso ci sono solo tante luci e infiniti colori, dove immergere il pennello.

E posso abbandonarmi finalmente alla carezza nell’anima che sento, all’impalpabile stretta di una mano invisibile sul mio cuore, che stringe e spreme i miei sentimenti. E ti vedo, non così come sei ora, vecchia e con le mani macchiate, che dimenerai disperata quando ti diranno che sono morto, che non ci sono più. Griderai che non può essere vero, ma che lo sapevi, prima o poi ti avrei tradito ancora, lasciandoti sola. No, non così, ti rivedo invece come eri quell’estate, con i capelli sciolti e gli occhi grandi, distesa sulla sabbia ancora calda, mentre vibravi forte alle mie carezze e mi lasciavi spingere la lingua tra le tue labbra. Il tuo sapore di miele, i tuoi capezzoli turgidi, l’odore di scoglio confuso col profumo degli oleandri.

Dal colpo di spatola finale adesso torno indietro a dipingere di azzurro chiaro l’armonia, perché non te l’ho mai detto quanto eri bella allora e quanto sei bella adesso, con i capelli bianchi, le rughe e gli occhi stanchi! E ancora il tratto scorre indietro agli anni rosa tenue delle ninne nanne, delle poppate infinite. Tra le mie mani i pennelli si muovono impazziti, spalmando il rosso intenso degli slogan gridati nei cortei di protesta, fino al nero delle notti insonni e dei lutti insopportabili, al verde dei prati dove ci stendevamo tranquilli quando avevamo marinato la scuola, distese verdi di quel verde intenso nel quale a sbocciare erano solo fiori e non siringhe.

Poi il grigio chiaro, il colore limpido delle canne fumate nei bagni di scuola. Il giallo, l’arancione e le sfumature violette che annunciano l’intensità del tramonto, e solo ora mi accorgo che ogni giorno muore in un modo tutto suo, come ogni essere umano, ghermendo nel suo transito le profonde gioie e le incancellabili disperazioni che lo hanno animato.

Il verde chiaro delle nostre illusioni, la trasparenza delle tue lacrime per i miei tradimenti, il freddo indaco per i miei rimorsi… la osservo e la tela adesso è un vero splendore.

Inutile il trasporto in ospedale, è andato, – dice perentorio il medico, sceso dall’ambulanza che è arrivata squarciando il silenzio sospeso di chi assiste alla mortalità; e io ho udito chiaramente le sue parole. Nessuno si accorge che sono felice, mentre vorrei portare con me il profumo di umido e di pioggia, quello che da sempre colma il mio animo, in attesa dei raggi di sole.

Mi allontano dalla tela che ho dipinto con tanto fervore, camminando con passi lievi e orgogliosi nello studio da pittore di quel tempo lontano, nello spazio che da anni non mi appartiene più. Dio quanto mi è mancato! penso, mentre irrefrenabili sgorgano le lacrime di chi inspiegabilmente viene avvolto, all’improvviso, da una folata di vento tiepido. E mi accorgo che fuori anche il giorno sta morendo e che i tetti di Via Margutta riflettono quegli ultimi e sconfortanti sprazzi di luce nel mio sguardo spento.

I colori perdono intensità, si affievoliscono e la tela sta tornando vergine come lo era all’inizio ed è questo che vorrei sussurrare adesso all’orecchio di quella ragazza, che ancora piange e si dispera. A lei che tra qualche ora cercherà di dimenticarmi, sfilerà veloce le sue calze a rete e farà l’amore per non ricordare. Vorrei asciugare quelle lacrime, tirarle indietro i capelli, baciarla nella bocca e raccontarle la stupenda verità che ho scoperto solo adesso. Lei non mi crederà, si pulirà le labbra dalla saliva di un vecchio e correrà via. Il ragazzo la seguirà con le sue scarpe da ginnastica inzaccherate, la terrà ferma per un braccio, non comprendendo il perché della sua fuga. Nessuno crederà che il vecchio morto investito l’ha baciata, nessuno crederà a quello che le ha detto in un sussurro. Ma lei giurerà, spergiurerà che è vero e che lo ha udito chiaramente con le sue orecchie. Lo griderà disperata, tirandosi i capelli.

– Calmati! – cercherà di sedarla lui, abbracciandola, ti credo, smettila di urlare, che ti ha detto?

– Una cosa bellissima e terribile, ho perfino paura a raccontarla, – tra i singhiozzi lei tirerà su col naso, pulirà il muco col dorso della mano e alla fine parlerà, – mi ha confessato che la morte non arriva mai senza avvertire e che non è sopraffazione, ma restituzione. Mi ha assicurato che c’è un attimo, una frazione di secondo che solo la morte sa regalare, tra luci e ombre, fastidiosi suoni stridenti e leggeri accordi di arpe. Ed è in quel frammento di tempo dilatato che solo lei, la morte, sa mostrarti ciò che sei stato e che avresti potuto essere, restituendoti in un solo istante quello che hai perso nell’insensato palpito di vita .

© Testo – Daniela Alibrandi
:: per maggiori informazioni sull’autrice, ecco il suo sito ::

:: Editing a cura di edida.net ::

© Immagine – Rosa Zerbo (2020 – acrilico, spatola)

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La pistola

Lo scambio

:: di Andrea Guglielmino ::

Il clima era mite. Insolito per Berlino. Una brezza fresca, proveniente dalle finestre semiaperte, ripuliva l’aria densa dei fumi della cucina. Tod spignattava, come sempre. Gli spaghetti erano quasi pronti. Belli al dente, come piacevano a lei. Tröme adorava l’Italia. Tod concluse le operazioni e poi si slacciò il grembiule da cuoco, che gli stava un po’ stretto sulla pancia e sui fianchi abbondanti. Si tolse il cappello da chef e asciugò qualche perla di sudore dalla testa pelata. Poi schiarì gli occhiali, che si erano appannati.

– Amore, è pronto. Hai finito il bagno? – chiamò.

Tröme stava uscendo dalla vasca in quel momento. Splendida, statuaria, sensuale, forme sinuose, fianchi perfetti, gambe lunghe, affusolate e un seno generoso, proporzionato, su cui ricadevano i capelli scuri e ancora bagnati di acqua schiumosa. Era difficile capire il motivo per cui i due stessero insieme. Quante occhiate di invidia verso Tod, con quell’aspetto così trascurato e poco attraente, quando camminava in strada a fianco della sua donna. Ma i due non ci facevano caso. Tod faceva tutto per lei, e lei lo ricambiava di un amore sincero. Nessuno si era mai preso cura di lei in tal modo.

– Sono quasi pronta! – rispose Tröme sortendo dal bagno in un accappatoio che fasciava le sue curve, lasciando vedere caviglie sottili e una scollatura vertiginosa. Con i suoi occhi da cerbiatta guardò il compagno, gli tolse gli occhiali e lo baciò con passione.
– Com’è stato? – chiese lui.
– Perfetto. Grazie per i sali. Era quello che ci voleva, dopo una giornata del genere.

Poco dopo si trovarono a tavola, a brindare con un buon Chianti. La cena era squisita, eppure Tröme era diventata, d’improvviso, silenziosa.

– Qualcosa non è di tuo gradimento, mia cara? – chiese Tod
– Oh, no, amore mio, no. È tutto superbo. È solo che… sono veramente stanca.

In effetti, se Tod era un perfetto casalingo, era Tröme a lavorare tutto il giorno perché l’equilibrio del loro ménage potesse sostenersi adeguatamente. Lei bevve un sorso di vino che le corroborò il palato con il suo gusto deciso. Tutto ciò che stimolava i sensi stimolava anche Tröme, e Tod, nel farla sentire viva, era un maestro. Toccava in lei corde che nessun altro sarebbe stato in grado di sfiorare.

– Ah – disse Tod – lo so quello che ci vuole per te.

Si alzò prontamente e iniziò a massaggiare delicatamente il collo e le spalle armoniose della sua donna.

– Mmmmh… – mugugnò lei sensualmente, con soddisfazione.

Si rilassò, e ricominciò a parlare.

– Sai che apprezzo le tue coccole – disse – ma il lavoro mi sta letteralmente uccidendo. È un vero massacro.

Tod la lasciò sfogare, e poi propose:

– Se vuoi staccare un po’, avrei un’idea.
– Sarebbe? – chiese Tröme incuriosita.
– Sarebbe che ci scambiamo di posto per qualche giorno. Vado io al lavoro e tu stai a casa. Che ne pensi?

Lei gli lanciò uno sguardo stralunato.

– Aspetta – specificò lui – non è che pretendo che tu cucini. C’è sempre il servizio a domicilio. Ti riposerai e io farò il lavoro che fai tu di solito… dopotutto, non è una cosa impensabile, no?

Ci fu qualche lungo secondo di silenzio, poi Tröme scoppiò in una risata che Tod non prese bene. Lei se ne rese conto e corresse immediatamente il tiro, accarezzandogli dolcemente il viso.

– No, amore, non fare così – disse Tröme – Scusami, veramente. Sei tanto dolce e io ti amo per questo, ma… non è possibile. Voglio dire, non sai nemmeno come si usa lo strumento.
– Beh – rispose lui un po’ sollevato – per questo mi sono permesso di acquistarne dei miei. Vedi, era un po’ che ci pensavo, tra poco è il nostro anniversario, e volevo proporti questo scambio come regalo ma… mi hai anticipato.

Tod si allontanò momentaneamente, con il permesso di Tröme, e tornò con una misteriosa e voluminosa valigia. Quando la aprì, gli occhi di lei si illuminarono. Era piena di armi. Da taglio, da fuoco, un coltello, una pistola, un’ascia. C’erano perfino una spada a lama finissima – poteva essere una Toledo – e una mitraglietta.

– Però – ammise Tröme – niente male!
– Visto? – replicò Tod – dammi una possibilità. Posso cavarmela!

Tröme ci pensò ancora un attimo. Dopotutto, erano una coppia moderna, e questa momentanea inversione non poteva far male. E poi il gesto di Tod era veramente tenero, perché mandarlo in fumo?

– Va bene – disse lei – proviamo per un giorno. Domani lasciami dormire. Trovi la mia lista sul comodino.

Tod fece un gran sorriso.

– E adesso – ordinò Tröme porgendo un piede al suo uomo – sai cosa devi fare.

Tod iniziò a massaggiare. I piedi di Tröme erano perfetti, morbidi e profumati come un misto di spezie esotiche. Tod li avrebbe leccati e annusati per ore. Iniziò ad eccitarsi e Tröme notò la sua dirompente erezione. Tröme spostò il piede sul pene di lui e iniziò ad accarezzarlo. Fecero l’amore selvaggiamente, come due animali.

La sveglia suonò alle 6.00. Tod si lavò e si fece la barba con cura, poi mise il suo vestito buono. Raso viola e camicia di seta azzurra. Cravatta intonata e annodata con perizia. La sua compagna aveva un’uniforme di lavoro, voleva averne una anche lui. Tröme dormiva sensualmente adagiata. Lui fece silenzio per non svegliarla. Prese la lista. Era parecchio lunga. Fece colazione, poi caricò in macchina la valigia con i ferri e seguì con cura le indicazioni, che lo portavano a Jacob Kief, bancario, onesto lavoratore, una moglie e due figli piccoli. L’appuntamento era per le 7.30. Kief scese puntualmente alla fermata di Potsdamer Platz. Era stressato, quella mattina aveva un gran mal di testa e quando gli arrivò in fronte il proiettile che Tod gli aveva piazzato in testa da lontano, con un silenziatore, il rilascio dei nervi alleviò il dolore. Kief ne fu felice. Poi stramazzò a terra schizzando pezzi di cervella, tra l’orrore generale degli astanti. In meno di un minuto il diligente Tod mise in moto la macchina e si dileguò. Poi passò a Laura König, casalinga, uccisa a colpi d’ascia in un vicolo, e a Gino Steben, quattordicenne, trucidato da una raffica di mitraglietta.

Per la signora Bergen fu diverso, aveva ottant’anni ed era in ospedale da tempo e in pessimo stato. Bastò staccarle il respiratore in un momento in cui tutti erano distratti. Nessuno andava a trovarla da settimane. Frau Bergen prima di morire guardò Tod e sorrise. Lo aveva scambiato per suo figlio.

Tröme stava facendo shopping. Pensò che sarebbe stato carino chiamare Tod per sapere come stava andando. Squillò il cellulare – con un pezzo dei Carcass – e Tod rispose attivando il viva voce dell’automobile.

– Come procede, tesoro?
– Tutto molto bene – rispose lui – anzi sono già avanti sulla lista. Arrivo presto. Ma adesso… devo risolvere un problemino!

Tod imboccò una superstrada spaccando ogni barriera senza ritegno, inseguito da una scia di macchine della polizia urlanti, di cui aveva inevitabilmente attirato l’attenzione. Sparò l’ultimo colpo dal finestrino e prese in pieno, bucando il vetro, la testa del poliziotto che era alla guida della prima. Era Fred Wilhelm, ed era in lista. La volante deragliò, devastando il guard rail e cadendo giù nella vallata sottostante, e così fece la macchina di Tod, non appena la sua gomma destra posteriore venne colpita da un proiettile. La sua auto esplose, e così quella della polizia, in uno spettacolare tripudio di rottami, fiamme e carne bruciata.

Tröme aveva appena attaccato il telefono per ordinare le pizze, Quattro Stagioni per lei e Capricciosa per lui, quando suonò il campanello, che riproduceva maestosamente il Requiem Confutatis di Mozart. Tod era orribilmente sfigurato, con ustioni di vario grado sul viso e su tutto il corpo. La mascella quasi staccata dal resto del viso, e faticava a parlare.

– Bentornato tesoro! – lo accolse Tröme affettuosamente e solo dopo notò la pessima cera del compagno – Mamma mia! Come ti hanno ridotto!
– Hhhhhhhh… – sospirò lui, che non poteva articolare le parole.

Tröme lo baciò, cercando di centrare quello che era rimasto della sua bocca, e le ferite di Tod iniziarono miracolosamente a guarire. In meno di un minuto era come nuovo.

– Ecco fatto – disse lei – però che ti avevo detto? È un lavoro stancante, il mio…
– Lo so, tesoro – fece eco lui – lo so…

Suonò nuovamente il Confutatis. Erano le pizze. Mangiarono rapidamente e si infilarono a letto. Tröme si presentò nel nuovo completo intimo, più sexy che mai.

– Amore – disse lui – sei bellissima, ma sono distrutto. Non ce la faccio.

Tröme lo tranquillizzò e lo abbracciò forte. Si addormentò come un bambino. E così fece lei. Fu una notte tranquilla. Alle prime luci Tröme si svegliò e guardò il suo Tod. Era dolce. Quando lo aveva incontrato, per la prima volta, era sul ciglio del ponte di Oberbaumbrücke, in piena notte. Stava per buttarsi giù. Lei si presentò con il suo vero aspetto. Tod la guardò come nessuno l’aveva mai guardata. La aspettava da sempre. Quello sguardo innamorato la spiazzò e cambiò la sua esistenza per sempre. Dopotutto anche lei, la Morte, aveva il diritto di amare ed essere amata. Tod la conquistò con un bucatino all’amatriciana. Aveva perso il lavoro da chef, ma ora qualcuno poteva apprezzare i suoi piatti. Lei amava l’Italia. Per questo aveva scelto “Tröme” come pseudonimo: l’anagramma del suo vero nome in italiano, aggiungendoci quell’Umlaut che dava un tocco di ‘nordico’ in più. E si era fatta bella, per lui, per ringraziarlo. Perché fossero felici. Quanto poteva durare? Non lo sapeva e non le importava. Adesso doveva tornare al lavoro. Aprì l’armadio e prese la falce, il suo strumento. Indossò il mantello, la sua uniforme e passando davanti allo specchio si vide, per come si concepiva lei. Vide il teschio. E anche se non aveva labbra, sapeva di sorridere. Baciò Tod ancora rannicchiato in posizione fetale.

– Tesoro mio – sussurrò – te la sei cavata bene e mi hai fatto passare una giornata stupenda. Ma adesso è meglio che torni io…

E uscì di casa, pronta a mietere vittime.

© Testo – Andrea Guglielmino

:: Editing a cura di edida.net ::

Immagine “mano con pistola” presa dal sito PNGWing e ritoccata da Stefano Angelo

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La lite

La lite

:: di Stefano Angelo ::

Seduto al tavolo, con l’avambraccio destro disteso verso una coppa di vino, battevo nervosamente il dito indice sulla base del calice. Il suono di quel battito rimbombava amplificato nella mia testa, come se volesse proteggermi, distrarmi, isolarmi, senza riuscirci, da un rumore ancora più forte.

Il mio sguardo, come era il mio sguardo? Basso, spento, fisso sul mio avambraccio. E il mio corpo? Ricurvo. Ero ricurvo su me stesso e cingevo, con la mano sinistra, l’avambraccio. Continuavo a fissare quella parte anatomica del mio corpo, senza capirne bene il motivo. Stavo scomodo, in tensione, con il peso sbilanciato sul mio fianco destro, mentre non ascoltavo lei che mi incalzava con le sue richieste. Richieste da esaurimento nervoso.

Chi diavolo mi aveva messo in quella situazione e in quel locale, in quel momento? Non avevo alibi, ero stato io con le mie stesse gambe. Una promessa è una promessa. Che frase senza senso – forse. Intanto quel rumore assordante, della voce di lei, non mi dava pace. Avrei voluto alzarmi di scatto, buttarle il vino in faccia e scappare via, sbattendo una porta. Ma non ci riuscivo. Lei continuava a vomitare parole. Io, sempre più compresso, ritirai leggermente il braccio, sollevai il capo e cercai di posizionarmi, con fatica, con il busto eretto sulla sedia. Abbandonato il calice iniziai a muovere ansiosamente la gamba destra, “urtando” ripetutamente contro il bordo della tovaglia che pendeva sulle mie ginocchia. Era come un tam tam silenzioso, che echeggiava nella mia testa.

Lei sbatté, all’improvviso, il pugno sul tavolo e mi fissò, per pochi istanti, come se volesse urlarmi in faccia “Ma mi ascolti?”. Io, ridestato dal pugno, incrociai il suo sguardo, per un palpito, mentre lei riprendeva imperterrita con i suoi rimproveri e con la veemenza di sempre.

“Ma ti pare il modo di parlare a una persona?” pensai. Poi, come in catalessi, mi rifugiai in antichi ricordi. Antichi, proprio la parola esatta. Infinitamente lontano mi sembrava l’inizio della nostra relazione… solcata da innumerevoli crisi che l’avevano frammentata in ricordi sbiaditi, così sbiaditi da non poter più distinguere i momenti buoni da quelli meno buoni, violenti, orrendi come quello che stavo, stavamo, vivendo in quell’inutile pomeriggio. Mi sentivo piccolo e nervoso, bloccato e schiacciato in un angolo della vita di lei. Non riuscivo a pensare, nel mio calice vedevo solo caos e oppressione.

Adesso, invece di scappare, avrei voluto buttarmi su di lei, afferrare il suo esile collo con le dita e stringere, stringere, stringere. Con rabbia, in silenzio, in cerca di una liberazione. Vedevo i miei pollici affondare sulla sua trachea e un mezzo sorriso affiorò sul mio volto.

Di nuovo il rumore di un pugno sul tavolo mi ridestò, di nuovo i nostri sguardi si incrociarono per un misero momento mentre lei, continuando a parlare, sembrava che mi stesse anche urlando “Ma che diavolo hai da ridere!”.

Io avrei voluto abbaiarle in faccia: “Mi sento bene solo immaginandoti morta”. Ma continuai chiuso nel silenzio e il mio accenno di sorriso si spense in un soffio. Di nuovo mi estraniai dalla discussione. Discussione è parola grossa: monologo furioso… Rimuginavo.

La vedevo, la percepivo nella mia mente come un demonio liquido, capace di insinuarsi dentro di me, di invadere il mio corpo attaccando tutti i miei organi: i timpani, gli occhi, la lingua, il cuore, il diaframma, il ventre. Con la mente seguivo il liquido e cercavo, in uno scampolo di lucidità, di capire cosa mi stesse succedendo. I miei timpani erano avvolti da un frastuono insopportabile. I miei occhi, annebbiati e leggermente socchiusi, erano in uno stato di tensione che traspariva dalle rughe della fronte. La mia lingua era schiacciata sul palato e sugli incisivi, facendomi sentire dolore e immaginare il sapore del sangue. Il cuore batteva in maniera discontinua, cercai per un attimo di afferrare invano i miei battiti irregolari. Sentivo il diaframma come paralizzato, al punto di non poter quasi respirare. Percepivo i miei addominali come un tutt’uno con i miei glutei, contratti, come se una lama partisse dal mio ventre fino ad arrivare alla base della schiena. Lì si fermò.

Il liquido si dissolse. Una sensazione di freddo improvvisa in quel punto mi provocò un violento brivido che risalì come un fulmine fino a esplodere col fragore del tuono nel mio cervello che, destatosi da quello stato di torpore, mi portò a inclinare il torace in avanti, ruotare il braccio destro dietro di me, fino a scovare con la mano l’origine di quel gelo. Sfilai con uno scatto un revolver dalla cintura dei miei pantaloni.

Adesso silenzio. Adesso che alla fine del mio avambraccio destro non vi era più una coppa di vino ma una mano tremante che impugnava una pistola, lei aveva smesso di parlare. Finalmente. Ma quel silenzio improvviso non era consolatorio. Lei mi fissava. Io no, io guardavo il mio avambraccio, la mia mano e quella pistola. Di nuovo l’avambraccio, la mano, la pistola. Al ritmo del mio respiro affannoso, ripercorrevo con lo sguardo e con la testa quel tracciato. Stavo sudando. Lei era attonita, ma non fece in tempo a spaventarsi. Io smisi di tremare e di guardare. In un lampo, vissuto al rallentatore, portai con precisione la pistola alla mia tempia e feci fuoco. L’urlo di lei si confuse col boato dello sparo e io, inclinato su un fianco, mentre iniziavo a precipitare verso il pavimento, in un tempo sospeso tra la vita e la morte, riuscii a sorridere… con un sorriso diverso e mi godetti quella caduta istante per istante. Raggiunsi il suolo: senza più rumori, senza la voce di lei in sottofondo, senza pensieri. Libero e prigioniero (al tempo stesso) di una nuova dimensione, in cui tutto sarebbe ricominciato in maniera differente – o forse no. Ma questa volta, probabilmente, avevo vinto io.

© Testo – Stefano Angelo
:: Editing a cura di Francesca Frosali ::

Un ringraziamento particolare a Cristina T., Daniela A. e all’immancabile Salvina P.

Immagine di sfondo di Viki_B (Pixabay licence)

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Connessioni neuronali e codice Matrix

BIP-BIP, una storia vecchia

:: di Salvina Pizzuoli ::

Potremmo iniziare con “Tanto tempo fa”, per quanto è vecchia questa storia, ma non importa il periodo in cui si è svolta, se non è più attuale intendo dire, la voglio raccontare lo stesso, perché a me è piaciuta.  Non è necessario ambientarla, né collocarla precisamente in un arco temporale, potremmo dire che è avvenuta in una città senza nome e in un lasso di tempo imprecisato.


BIP-BIP era il nomignolo con il quale era stato simpaticamente battezzato il nuovo cervello elettronico installato negli uffici della grande fabbrica.
Tutti avevano aspettato con ansia il suo arrivo e la sua sistemazione nei vecchi uffici,  non solo perché aveva portato un po’ di trambusto nel tran-tran quotidiano, ma la presenza del cervellone dava anche lustro e prometteva di snellire il lavoro.


Con grande ammirazione e deferenza avevano seguito le operazioni dei tecnici che con il loro camice bianco incutevano reverenziale timore,  quasi come il medico al paziente che attende una diagnosi assolutoria.
Quel camice era simbolo di scienza, perfezione, ma anche di prodigio; spesso avviene infatti che tutto ciò che è eccezionale, nel senso che non si verifica tutti i giorni, ci sembri figlio del  miracolo.


Quando le operazioni furono terminate, BIP-BIP entrò in funzione con regolarità e precisione instancabile. Per giorni e giorni furono collocati nella sua memoria infallibile: dati, termini, calcoli, operazioni. Imperturbabile, sembrava non dar segno né di stanchezza, né di saturazione, né di soddisfazione; l’unico tangibile segno della sua presenza e attività era contrassegnato da quel ronzio, costante, strascicato e monotono che gli aveva meritato il nomignolo.


L’impiegato che per mesi aveva seguito i corsi di formazione e specializzazione all’uso del calcolatore si chiamava Biagio Arrigoni. Il signor Arrigoni era un ometto piccolo di statura, con una pancetta arrogante che si imponeva, sprezzante di ogni minimo senso dell’opportunità, tra bottone e bottone della camicia non disdegnando di straripare anche attraverso altri spazi.
Ma era il suo viso paffuto e quell’aria arguta, che traspariva dietro le spesse lenti degli occhiali, a conferirgli un aspetto giovanile e scanzonato nonostante l’età non più giovanissima.
Solo, senza famiglia e senza impegni si era dedicato anima e corpo allo studio dell’informatica che era divenuta amore e disperazione a un tempo.


L’incontro tra i due segnò per Biagio un vero e profondo cambiamento: poteva riversare tutta la sua dedizione e conoscenza su quel gioiello di perfezione informatizzata rappresentato da BIP-BIP.
Non gli sembrò quindi strano scoprire, con il passare del tempo, di nutrire sentimenti nei confronti di quella che a molti, dall’esterno, poteva apparire solo una macchina.
Gli parlava, si complimentava, restava interdetto dalla velocità di esecuzione o dalla risposta o dai rifiuti a proseguire o eseguire il comando se questo fosse stato registrato come errato. Lo colpiva soprattutto che non vi fossero mai inesattezze, ma solo risposte razionali alla mancanza di dati o di comandi inadeguati a concludere o proseguire le operazioni richieste.


Si era spesso divertito a prenderlo in castagna, come spesso rammentava a se stesso ripercorrendo le operazioni della giornata. Macché! BIP-BIP non aveva mai un’esitazione, un cedimento.


Questo sodalizio stava però per concludersi tragicamente.


Un giorno Biagio scoprì una risposta erronea, di un errore banale e macroscopico; sembrava tirata a caso, come fanno spesso gli alunni sorpresi impreparati e sprovvisti del coraggio di ammetterlo.
Provò e riprovò, ma le risposte erano sempre diverse e via via più stravaganti.
Ricontrollò allora il programma, ripercorse tutte le operazioni di apertura e avvio, cercò nelle proprie fasi di svolgimento le eventuali sviste. Nulla!


Fu a quel punto che avvilito e sempre più turbato cominciò a chiedersi se per caso non fosse stato contagiato da qualche malattia dei calcolatori.
Come una madre amorosa cominciò allora ad ascoltarlo, osservarlo, accudirlo e sostenerlo circondandolo di cure sollecite ed eccessive, quasi a sfogare l’inquietudine che si stava impossessando di tutto il suo essere.
Glielo avrebbero portato via? Lo avrebbero sostituito con uno funzionante? Era ancora in garanzia; che fare?
Mentire, tacere.


Quando però le pratiche cominciarono a restare inevase e il lavoro cominciò ad accumularsi troppo, fu per necessità costretto a denunciare il cattivo funzionamento del computer.
Il processo di revisione fu subito approntato e un tecnico della ditta costruttrice venne espressamente e sollecitamente a visionare tutti gli apparati: BIP-BIP venne letteralmente spogliato, sezionato e quindi ricomposto.
Il signor Biagio Arrigoni non si era allontanato mai e aveva seguito con trepidazione tutte le fasi di revisione e atteso con angoscia la diagnosi.


– Caro il mio signor Arrigoni -furono le testuali parole del tecnico al termine delle accurate indagini- la macchina funziona perfettamente!


Sollievo, grande sollievo, seguito subito dopo da una terribile ansia: e allora gli errori a cosa potevano essere attribuiti?


Il suo dilemma inespresso trovò risposta pochi giorni dopo: Biagio Arrigoni venne sostituito da un operatore mandato espressamente dalla Ditta per accertare il buon funzionamento della macchina, in attesa di un nuovo impiegato addetto. Era accaduto ciò che da Biagio non era stato affatto previsto; la notizia lo scosse a tal punto che se ne ammalò e fu costretto a casa.


Durante i primi due giorni la sua assenza non fu molto notata anche perché BIP-BIP aveva ripreso a funzionare egregiamente, smaltendo l’accumulo precedente.
Fu al terzo giorno che accadde qualcosa di inaspettato.
I segnali di stranezze iniziarono con acuti stridii, seguiti da schermate intere di Error in tutti i caratteri in dotazione, procedendo quindi con la stampa di pagine e pagine, il tutto in modo automatico e imprevisto.


Furono gli stessi tecnici a scusarsi con Biagio Arrigoni chiamandolo a casa e comunicandogli che la macchina sarebbe stata sostituita al più presto. Biagio fu cortese e premuroso e chiese ragguagli precisissimi sui tempi della sostituzione… Un chiaro progetto si era fatto strada nella sua mente.
Con il cuore in tumulto e il cervello in fermento, lucidissimo, elaborò un piano degno di un professionista.
Fu così che quella sera Biagio armato di guanti e di una grande borsa si introdusse con fare disinvolto nella stanza dove BIP-BIP era già pronto e inscatolato per la sostituzione.
Nessuno aveva fatto domande; non era anomalo che gli impiegati facessero gli straordinari.
Più difficoltoso fu trasportare i vari pezzi che componevano il computer, ma i viaggi erano stati ben concertati: la luce accesa in ufficio, viveri vari sul tavolo, luce accesa nei bagni, auto parcheggiata in posizione strategica e ben mimetizzata.


Anche nella sua nuova camera in pensione era tutto pronto.
Il salvataggio di Bip-bip  era avvenuto senza problemi ed era stata evitata una possibile rottamazione. Al progetto Biagio aveva dedicato tutto se stesso, incurante dei rischi e delle conseguenze. Non si era soffermato neppure a domandarsi se valesse la pena di buttare via tanti anni di lavoro e di carriera ineccepibile; lo aveva fatto e basta, spinto da una forza che non credeva di possedere.


Ancora oggi Biagio e BIP-BIP sono insieme, vivono nella casa in campagna che fu dei genitori di lui. Biagio gli racconta il variare dei paesaggi che mutevoli si susseguono davanti alla sua finestra nel mutare delle stagioni: i cipressi maschi svettanti e sottili e le femmine più paciose e piene che punteggiano ondeggianti i crinali dei colli e si stagliano nello sfondo a occuparlo tutto, le terre arate, nere di pioggia o grigie e polverose sotto i cieli d’estate, gli steli del grano verdeggianti e le gialle spighe pesanti, il volo pigro di uccelli e le fughe di stormi nei cieli neri d’autunno.


BIP-BIP continua con le sue stranezze; non c’è un grosso nesso tra le parole e i pensieri dell’uno e le stampe e le videate dell’altro, ma nessuno dei due se ne lagna.

© Testo – Salvina Pizzuoli
:: Editing a cura di Stefano Angelo ::

Immagine di sfondo realizzata da TheDigitalArtist (Pixabay licence)
Immagine “codice Matrix” presa dal sito PNGWing e ritoccata da Stefano Angelo

Questo racconto fa parte di una raccolta, di Salvina Pizzuoli, pubblicata nel 2016 (seconda edizione) da edida con il titolo di “Corti e fantastici

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Geranei caleideoscopici

I gerani

:: di Lyes ::

Fa talmente caldo che non mi va di alzarmi nemmeno per annaffiare i miei gerani, semi-appassiti, in piena asfissia sul davanzale della finestra.

Moriranno. Pazienza. Prima o poi capita a tutti.

Aspetto il tuo arrivo dondolandomi sulla mia sedia di vimini scassata, come si usava una volta e si usa di nuovo adesso, facendo perno col piede nudo sul tavolino che mi sta davanti.

Le persiane sono abbassate a tre quarti e la luce entra a strisce polverose nella stanza, arroventata dal soffitto catramato del terrazzo sopra di me. Goccioline di sudore scorrono dentro l’incavo del seno e penso se non sia il caso di rifarsi una doccia. La terza della giornata.

Le cuffie dello smartphone ripetono questo cavolo di “contemporary drama” nelle mie orecchie, di cui comincio a capire qualcosa solo ora, dopo una trentina di puntate andate a vuoto, perché mi fa bene per imparare l’inglese “parlato” che dovrò capire per forza una volta arrivata a Houston, Texas, Usa.

Tra 72 ore esatte a partire da adesso.

La valigia è più triste di me, ancora mezza vuota e io non so quando e come avrò il coraggio di infilarci dentro il minimo sindacale per un inizio di vita altrove.

Suoni il citofono e io apro la porta facendo finta che non m’importi nulla, che non ti sto aspettando, che le mutandine che indosso non l’ho messe e tolte e poi rimesse quel paio di volte in più del necessario. Lo stesso con il vestito. Ma prima, mentre sali, ho un secondo per guardarmi allo specchio. I capelli in disordine li lego in una coda che a stento trattiene tutto, il lucidalabbra lo tolgo con il dorso della mano perché mi rende non vera, il vestito leggero che fa intravedere la forma del mio seno, forse è troppo corto?

Bussi, apro la porta e ci sei tu. Entri, mentre mi dai un bacio fugace sulla bocca, e mi porgi un vasetto di gerani. Gialli questa volta. Niente parole inutili tra di noi.

– Ciao.

– Ciao.

Appoggio il vaso accanto agli altri, ognuno di un diverso colore, ma sempre moribondi, e mi giro a guardarti mentre anche tu fai lo stesso, appoggiato al lavello della cucina, coi tuoi occhi scuri dalle ciglia lunghissime, che mi perforano l’anima.

Pieno di rimprovero e disapprovazione prendi la caraffa, la riempi d’acqua e ti metti a innaffiare le piantine che mi hai regalato, in religioso silenzio, aspettandoti un miracolo, forse, al quale io, mezza atea e mezza astiosa, non credo.

Senza che me ne renda conto, e con la strana sensazione che qualche fiore nel frattempo si sia materialmente messo a respirare di nuovo alzandosi di un impercettibile mezzo millimetro, mi sei accanto e mi sposti una ciocca di capelli dal viso. Mi prendi in braccio e mi fai sedere sul tavolo con le gambe avvinghiate a te, iniziando il nostro gioco preferito.

Cantami, o Diva, del Pelìde Achille
l’ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco
generose travolse alme d’eroi…

Piano, mi abbassi la spallina sottile del vestito nero che indosso e mi stringi il seno nudo, con le mani ruvide, esigenti, maleducate.

… e di cani e d’augelli orrido pasto
lor salme abbandonò, da quando
primamente disgiunse aspra contesa
il re de’ prodi Atride e il divo Achille…

Non riesco a continuare mentre le tue mani mi accarezzano e la mia parte mi si spezza in gola.

– Andiamo di là.

Ordini, non suggerisci. Anche qui siamo in penombra. Il buio non fa per noi. Mi guardi fisso negli occhi, mentre mi fai stendere sul letto, mi sollevi la gonna e allarghi piano le gambe. Giochi con le mie mutandine. Le sposti di lato e infili dentro le dita, lentamente. Inarco la schiena al tuo tocco, non so quanto riuscirò a resistere e mentre il desiderio che ho di te continua a salire e mi offusca la mente, secco mi chiedi:

– perché non dai acqua ai gerani?

La domanda sembra talmente seria ed è arrivata così inaspettata che scoppio a ridere tanto la risposta è banale. Ma la mia risata sembra avere uno strano effetto su di te che mi guardi ancora più serio di prima e mi entri dentro, furiosamente, con le mutandine ancora addosso.  Poi, scompariamo dal mondo.

– Vuoi che ti accompagni in aeroporto?

Io penso sia l’ultima cosa che voglio.

– Grazie. Ma no, grazie. Viene Irene.

Metto a bollire l’acqua per il tè alla menta, abitudine che ho preso anni fa, dopo un viaggio in Marocco con delle amiche, in cui tutte ci innamorammo di questa berbera usanza di rinfrescarsi col tè caldo d’estate. Mentre lo beviamo insieme, il tuo telefono squilla ma non rispondi. Dici soltanto: devo andare.

Siamo di nuovo in piedi appoggiati al lavello. Mi metto accanto a te e ti do una lieve spallata, come se fossimo i vecchi amici che non siamo mai stati e ci mettiamo a ridere. Per non metterci a piangere, come due deficienti.

Abbasso gli occhi, colmi già di una stupida nostalgia di cui mi vergogno, e mi tiri su il mento guardandomi mentre il respiro mi si affanna, nonostante cerchi di darmi una calmata. Non lo reggo il tuo sguardo, oggi più che mai, ma tu ti avvicini, mi dai un bacio leggero sulle palpebre chiuse a metà mentre le tue mani mi riempiono il volto.

Sappiamo entrambi che la distanza non fa per noi. Che non ci siamo mai telefonati per raccontarci la nostra quotidianità, nemmeno quando eravamo a 5 km l’uno dall’altra. Figurarsi a 9150 km l’uno dall’altra. Km più km meno. Consapevoli del fatto che nessun dei due si potrà presentare all’improvviso, in caso di bisogno, nel cuore della notte a casa dell’altro, per un abbraccio o un’allegra e superficiale, almeno così sembrava fino a ieri, scopata.

Non funzionerebbe.

– Rimani.

Non sembra nemmeno la tua voce. A stento riconosco la sicurezza perentoria, quasi arrogante, del timbro che fino a un secondo fa non pensavo potessi mai e poi mai perdere. C’è odore di sabotaggio nell’aria per questo cuore, ma mi sorprende il coraggio che ho:

– Non posso. Non chiederlo.

Neanche la mia, sembra la mia voce.

– Va bene.

Ti guardo andare via senza girarti nemmeno. Del resto, non lo sopporterei. Ti guardo chiudere piano la porta dietro di te, che io invece avrei sbattuto con tutta la rabbia di questo intollerabile addio.

Aspetto un minuto. Vado alla finestra e getto di sotto, uno per volta, uno dietro l’altro, dieci in tutto, i tuoi maledetti, insopportabili, vasetti di gerani, che si schiantano al suolo in un fragore di ceramica frantumata. Mille minuscoli pezzettini colorati di nulla. Fiori semi-appassiti dappertutto.

Qualcuno di sotto si lamenta: Ehiii!

– Ehi un cazzo! Sorrido amaramente.

È arrivato il momento di fare la valigia.

© Testo – Lyes
:: Editing a cura di Stefano Angelo ::

Immagine di copertina realizzata da RitaE (Pixabay licence), ritoccata da Stefano Angelo.

:: Nota: Primo racconto, con un pizzico di erotismo, della serie Codigo Rojo. Stuzzicante al punto giusto, malinconico, irrequieto. Della serie, quando fa caldo e non puoi farti un bagno…

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