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PUBBLICAZIONI EDIDA

Passione per la scrittura
ESPLORA
La lite

Voltiamo pagina

:: di Stefano Angelo ::

Che bella giornata per una passeggiata in questo parco. Non sono mai stato qui prima d’ora. Mi piace. Il sole, in questo momento, è caldo e mi accarezza il viso… Me lo godo e cerco di rilassarmi. Non c’è nulla che possa rovinare questa mia giornata, ne sono assolutamente certo.

Nella direzione opposta vedo una persona che si avvicina, quasi correndo. Non vedo bene da lontano e non ho voglia di mettermi gli occhiali, ma qualcosa di quella persona mi attrae…

– Ciao, come va, che sorpresa! [dico io, emozionato e confuso]
– Ciao, come stai?
– Non posso crederci! Come stai, che mi racconti?
– La verità è che ho fretta.
– Ok, capisco. Ma avrai cinque minuti per chiacchierare un po’ con un conoscente. Con un vecchio amico? Si potrebbe dire…
– Non lo so davvero. Non credo sia molto utile parlare.
– Come “non sia utile parlare”. Ma ne ho bisogno! [leggermente alterato]
– Vediamo Dante, di cosa hai bisogno?
– Come “di cosa ho bisogno”? Te ne sei andata una mattina, all’improvviso, senza lasciare traccia. Ho provato a chiamarti, a scriverti, ma niente. Sparita.
– Le cose si rompono, Dante. E le cose rotte non sempre possono essere riparate. A volte non c’è colla che tenga.
– Come “non c’è colla che tenga”. Ma se eravamo super incollati. Due anni di convivenza… e ora mi dici che non c’è colla.
– Beh no, Dante, non c’è nessuna colla. E ora, per favore, lasciami andare… i cinque minuti sono passati.
– Però che dici! Non capisci che sono ancora molto innamorato di te. Mi hai spezzato il cuore. Non mi hai lasciato nemmeno un biglietto. Ma ho bisogno, adesso, di sapere cosa è successo. Ne ho bisogno per voltare pagina, per andare avanti. Me lo devi.
– Ascolta Dante, non sono la tua Beatrice, non lo sono mai stata. E non devo niente a nessuno.
[afferrandola per il braccio] Adesso io sarei “nessuno”? Quanto sono misere le nostre vite. Per favore Bea. Aspetta, non puoi lasciarmi di nuovo così, senza alcuna spiegazione. Devo sapere, ho bisogno di sapere, che non è stata colpa mia.
– Ehi, non toccarmi o mi metto a urlare. Sono in ritardo, oggi è un giorno importante per me e c’è qualcuno che mi aspetta, capisci? E ora devo proprio andare!
– Vediamo Bea. E chi sarebbe questo “qualcuno” così importante da farti cancellare due anni di vita trascorsi insieme, come se non fosse mai successo nulla?
– Ascoltami Dante, ma ascoltami bene. Dico sul serio. Come ti ho già detto, non sono la tua Beatrice, non sono il tuo giocattolo. Mi chiamo Clara, per l’amor del cielo, Clara. Non mi hai quasi mai chiamato con il mio vero nome, non ti sei mai fatto domande, non ti sei mai fermato a pensare se quello stupido gioco mi piacesse davvero o no. Sei schiavo della tua immaginazione. Non presti mai attenzione ai dettagli. Non presti mai attenzione agli altri. Vivi dei tuoi film, costruisci le tue storie e i tuoi personaggi. Vuoi sapere la verità? Il tuo film è stato la mia gabbia. Sei così sognante e così innamorato, ma non di me, cazzo, non di me… solo dei tuoi sogni del cazzo. Capisci ora? La tua “Beatrice” non è mai esistita. La verità è che tu vivi fuori dal mondo, fuori dalla realtà.
– “Verità”, che parola ingannevole. Ma cos’è la verità, cos’è la realtà? Mi stai dicendo che una persona non ha il diritto di sognare? Ho immaginato che stessimo sognando insieme e ora mi dici che era tutta una bugia? Non riesco a sopportarlo. Non voglio sopportarlo!
– Dai Dante, smettila con le stronzate melodrammatiche e comportati da adulto, per una volta. Ho cercato in tutti i modi di darti dei segnali, di farti capire che non ero molto felice e che quello che provavo per te non era così forte. E più tu ti ossessionavi col “nostro” amore e più io volevo scappare. Ma niente. Tu avevi la tua visione e io ero ingabbiata nel tuo mondo.
– Ma cosa mi stai dicendo, come puoi pretendere che io non crolli, di nuovo. Ti ho amata. No – che dico – io ti amo, ne sono sicuro. E ora tu mi dici che ti sei spenta all’improvviso e che è stata tutta colpa mia!
– Beh, Dante. Riflettendo. Forse ti ho rispettato troppo. Forse avrei dovuto essere più diretta. Volevo lasciarti senza traumi ma non trovavo il modo, vedendoti… così innamorato, così cieco. Ma ripeto: eri innamorato del tuo amore, della tua visione, del tuo film. Non ti importava affatto di me.
– E così hai deciso di distruggermi, tutto in una volta.
– È vero, non ho avuto la forza, la capacità, di spezzare il tuo sogno prima e con delicatezza. Non avevo voglia di discutere con un muro. Mi aspettavo qualcosa da te, ma niente. Mi hai fatto impazzire. Ti guardavo e mi chiedevo come potesse esistere una persona così incapace di vedere la realtà delle cose. Alla fine, per me è stato più facile alzarmi e fuggire. Rompere le catene con un solo colpo.
– Catene, hai detto? Sei una persona egoista. Molto egoista. Non sei la mia Beatrice, come ho potuto essere così cieco.
– Cosa stai dicendo Dante. Ho resistito per te, solo per te, aspettando il tuo risveglio. Ma ho sbagliato. Dai, lasciami andare, Dante. In tutti i sensi. È tardi, troppo tardi. È inutile cercare un colpevole. E le cose rotte non possono sempre essere riparate, soprattutto in amore.

Senza sole, mi lascio cadere su una panchina. Mi stringo la testa tra le mani mentre, con la coda dell’occhio, osservo la schiena di Clara allontanarsi da me, priva di dubbi e per sempre.

© Testo – Stefano Angelo
:: Editing a cura di Stefania Angelo e Salvina Pizzuoli ::
Immagine di copertina di Viki_B (Pixabay licence), modificata.

:: Questo dialogo è la trasposizione, rivisitata, di una improvvisazione teatrale (svoltasi in una scuola di Madrid) a cui ho avuto il piacere di assistere. Insieme a “La lite” è il secondo racconto con cui cerco di esplorare il problema della incomunicabilità a livello di coppia ::

Primo piano di un gatto

Il sergente

:: di Lyes ::

Ero andata via dall’ufficio senza salutare. Non lo facevo mai, ma in quei giorni ero stanca di tutto e di tutti. Questo dover oltrepassare i controlli e una sbarra all’entrata e all’uscita dal lavoro, mi rendeva intollerante, antipatica e claustrofobica. Particolarmente. Perché già lo ero di mio…

Ma non da quando c’era lui. Avevo cominciato a notarlo qualche settimana prima. Cambiavano sempre e da poco era arrivato questo marcantonio dagli occhi blu che guardava sempre fisso davanti a sé.

Nemmeno trentenne, io con qualche anno in più, aveva gli occhi del mare d’inverno, carnagione scura e lineamenti marcati. Sembrava uscito da una vecchia pubblicità della Coca-Cola.

Però non sembrava affatto essere il bulletto a cui si atteggiava. Forse perché mi ricordava, a tratti, un caro amico d’infanzia, con cui avevo passato l’adolescenza e a cui avevo regalato la mia verginità. Avendo perso il padre da bambino era sempre incazzato col mondo. Faceva il bulletto ma io un po’ lo compativo. Così, non dando poi tutta quest’importanza all’evento, decisi che la nostra era comunque una forma d’amore e mi lasciai sedurre con affetto, anche se nessuno dei due era veramente innamorato. Crescevamo insieme e basta.  

Il marcantonio mi controllava i documenti e non mi degnava di uno sguardo. Nemmeno per vedere se la foto corrispondeva. Mi faceva aprire l’auto, ma niente. Neanche al mio stringato, ma almeno civile, saluto era seguita mai alcuna occhiata, un sorriso, nulla. Forse era solo questo a renderlo interessante ai miei occhi. Quasi rallentavo per farmi fermare quando c’era lui. Ma ero una donna e non mi fermavano spesso.

Non oggi però. Oggi controllavano tutti.

Ogni tanto accadeva che ricevessero ordini dall’alto che bisognava ispezionare tutti.

Ed eravamo in fila. Pazienti gli uomini. Le poche donne, meno. C’era sempre qualche scusa: figli da andare a prendere, correre a fare la spesa, cucinare, riunioni a cui partecipare. Insomma sembrava che gli uomini, in confronto a noi, non avessero mai niente da fare.

– Gentilmente mi apre dietro?
– Certo.

Che voce stridula mi era uscita. Mentre sprofondavo dalla vergogna aprii il portabagagli e subito mi caddero a terra le mille cianfrusaglie stipate dentro la macchina che usavo ormai come una seconda casa.

A entrambi venne automatico chinarci per prenderle e così, grazie a questo gesto quasi involontario, ci toccammo per la prima volta dandoci una severa testata l’un l’altro. Lui non si scalfì nemmeno, io invece persi l’equilibrio e mi ribaltai per terra.
Mi affrettai a scusarmi. Non so perché. Forse perché la divisa mi incuteva un po’ di timore. Ma avrebbe potuto farlo anche lui.

 Lo chiamarono.

– Sergente. Venga.

Niente nome.

Mi fecero spostare avanti per far passare gli altri. Lui tornò indietro e guidò la mia auto fino a superare il controllo e parcheggiò accanto a me che nel frattempo ero stata messa a sedere su una sedia con del ghiaccio sulla testa e sul ginocchio gocciolante sangue, tra le calze smagliate. L’accaduto ci aveva regalato quell’inaspettata intimità.

– Come si chiama?

Mi chiese porgendomi le chiavi della mia auto. Ma lo sapeva già il mio nome.

– Matilde. E lei?

Nessuna risposta.

S’inginocchiò di fronte a me e controllò le mie ferite. Mi accarezzò piano la fronte e finalmente dopo settimane che mendicavo il suo sguardo, i suoi occhi fissarono i miei.

– Perché non se ne va via?

Perché non me ne andavo via? Già, pareva facile. Prendere e lasciare tutto. Senza un soldo. Senza un lavoro. Senza alcun amico lontano che ti potesse ospitare.
Eh però se restavi e succedeva che morivi in uno dei mille atroci modi possibili, non era certo meglio. No. Decisamente non lo era.

– … E dove dovrei andare? … Arriverà anche qui?
– Sì.

Era stato un vero e proprio avvertimento. Un dirmi qualcosa che forse non avrebbe potuto. Ma io lo stesso non sapevo dove mai sarei potuta andare.

I giorni passarono e fummo immersi in questa coltre di ansia e incertezza.
Suonavano le sirene. Correvamo negli scantinati.
Ogni tanto arrivavano notizie da dove era la guerra. Quella vera. Quella dove qualcuno che conosci è scappato o muore o non ne sai più nulla. Eravamo un po’ tutti sgomenti. Sotto choc.

Mai avremmo potuto immaginare che una guerra, oggi, avrebbe preso posto nelle nostre vite. La guerra apparteneva al passato. Ai libri di storia o a un film, al massimo. E invece, nonostante sembrasse tutto così incredibile e assurdo, eravamo lì, e io avevo paura di tutto. Anche per il mio gatto ammaccato che si aggirava sempre più circospetto per casa.

Da qualche giorno venivo fermata più spesso. Non solo io.

La situazione era peggiorata. Mancava spesso l’acqua e riuscivo a lavarmi solo a pezzi. Mi sentivo sempre sporca e in ansia. I rumori mi atterrivano. L’umore era nero.

– Mi deve dare i suoi documenti.
– Ma sono sempre quelli i miei documenti. Passo da qui tutti i santi giorni, quattro volte al giorno. Non è che scado.

Nonostante tutto risi di me stessa e della mia acidità.

Il sergente alzò un sopracciglio e per la seconda volta in questa assurda storia, mi guardò dritta negli occhi.

– Non c’eri ieri.

Il suo darmi del tu mi sbalordì.

– No.

Riuscii a biascicare.

– Nemmeno giovedì.
– No.

Il cuore cominciò a battere velocemente e dopo tanto tempo ebbi quasi un attimo di pura euforica allegria. Non ero più abituata a sentirmi leggera ed ero come ubriaca.

– Stai meglio?
– Sì.

Non rispondevo che a monosillabi ma volevo gridare. Mi trattenni.

E poi arrivò la mazzata. Inaspettata. Brutalmente inaspettata.

– Tra 15 giorni mi trasferiscono.

Mi sentii mancare. Ecco che questa oasi di vuoto, di estraneità all’orrore, me l’avrebbero tolta. Questo miracoloso rituale, che mi permetteva di sopravvivere ogni giorno, sarebbe finito.

– Dove?

Domanda inutile e stupida. Mi fece cenno di andare. E io mi sentii salire lacrime amare e piene di rabbia.

Arrivai a casa con gli occhi arrossati e pieni di un mare salato. Salii in fretta e, visto che scorreva un leggero rigagnolo d’acqua, m’infilai sotto la doccia, nella speranza che durasse quantomeno per lavare via questa insensata frustrazione.

Il citofono suonò.

– Posso salire?

Riconobbi la voce e aprii senza dire una parola. Senza nemmeno indicare il piano. Se sa dove sto, sa pure a che piano.

Bussò e io aprii la porta, con i capelli bagnati e l’accappatoio addosso.

Arrivò anche il micio che lo fissò torvo e sbilenco.

Con mia grande meraviglia lo guardò e lo salutò sorridendo. Sorriso che era la prima volta che vedevo. I denti bianchi, erano perfettamente allineati.

– Ciao gatto.

Dal mugolio che ne seguì, compresi che anche il mio gatto si era preso, immediata, una cotta per lui.

Dal gatto passò a guardare me. Mi guardò intensamente e a lungo. Per tutte quelle volte in cui prima non l’aveva fatto.

– Posso?

Mi chiese in un sussurro e io feci solo cenno di sì. Mi aprì l’accappatoio piano, mi afferrò i fianchi e cominciò a baciarmi lungo il collo, dietro l’orecchio.

Mi accarezzò ogni centimetro di pelle. Avevamo bisogno del calore l’uno dell’altra e non smettemmo un secondo di guardarci e baciarci e sorriderci.  Disperati.

Mi svegliai con lui addosso.

– Non so nemmeno il tuo nome.

Si mise a ridere…

– Ok. Ricominciamo da capo. Ci vediamo a pranzo. Ci incontriamo ufficialmente e ci presentiamo.
– Ok.

Sembrava un ragazzo adesso. E lo era. E se ne andò baciandomi sulla fronte.

Aspettai l’ora convenuta con un’ombra nel cuore.

Avevo paura che fosse stato solo un modo facile per andarsene. E invece eccolo lì, che ancora mi sorrideva arrivando da lontano. Con gli occhi fissi su di me. 

All’improvviso non vidi né sentii più nulla. Balzai violentemente all’indietro dal mio tavolino contro il muro. I vetri si frantumarono e la polvere fu ovunque. Un tremendo boato mi rimbombava nella testa e per qualche minuto non seppi più dov’ero e cosa stavo facendo.

Mi scossero. Brandelli di carne e tutto il rosso che avevo addosso pensarono fosse il mio. Ma non era il mio sangue.

Avevo (in loop) nella testa, lui che mi guardava per la prima volta. Lui che mi accarezzava il viso, lui che mentre facevamo l’amore mi sussurrava quanto mi aveva desiderato. Lui che mi sorrideva da lontano. Lui che saltava in aria.

Qualcuno venne a chiedermi se sapessi il suo nome.

Io avevo ancora il suo odore addosso. Ma il suo nome no, non lo sapevo. E non lo avrei saputo mai.

© Testo – Lyes


N.B. L’immagine utilizzata per la copertina è stata presa dal Web, ma non siamo riusciti a risalire agli autori. Siamo a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire nonché per eventuali non volute omissioni o per errore di attribuzione. Qualora l’immaginie utilizzata in questo testo violasse eventuali diritti d’autore, si prega di darne comunicazione e sarà immediatamente rimossa.

:: editing a cura di edida.net ::

Il dito medio

Il dito medio

:: di Stefano Angelo ::

– Non ce la faccio più.

– Che succede chavalín?

– Smettila di parlarmi in “itañolo” che non vivi più in Spagna. E poi non sono più un ragazzino.

– Come che non vivo più in España, ma se l’Europa dovrebbe essere una Spagna allargata!

– Ma che dici nonno? Allora i tedeschi potrebbero dire che l’Europa dovrebbe essere una Germania allargata! Ma non è così!

– Guarda che i teutoni ci hanno già provato una volta e secondo me continuano a provarci, anche se in forme diverse…

– Ma bastaaa! Che nel 1939 non eri nato nemmeno tu!

– Dettagli (e poi pensavo un po’ anche al dodicesimo secolo).

– Ma che dettagli, piuttosto spiegami perché solo noi usiamo la parola “tedeschi”. In spagnolo si dice Alemania y alemanes, in inglese Germany and Germans, in francese si dice Allemagne et Allemands, perché diamine noi usiamo la parola “tedeschi”?

– Ma quante lingue tu sai? E poi se continua così saremo sul serio tutti “tedesken”, studia solo il tedesco che è meglio, va…

– Ma basta con ‘sta crisi post elezioni. Anche il comunismo è morto e in fondo non è servito a niente, anzi ha fatto solo danni.

– “Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra?”

– Smettila di citare Gaber e dimmi qualcosa di sensato.

– “L’ideologia, l’ideologia, malgrado tutto credo ancora che ci sia”

– Al massimo puoi dire “spero” ancora che ci sia…

– Ma basta “non parlare” di politica, veniamo “a noi!” (accennando, ridendo, il saluto fascista) Cosa ti turba nipotino mio? Luce dei miei occhi, lampadina del mio bagno da 100 watt.

– Sei solo invidioso perché la nonna mi diceva che sono “bello come il sole” mentre a te non lo ha detto mai (ridendo di gusto).

– Quisquilie. Allora, vuoi dirmi perché sei venuto a disturbarmi mentre mi stavo godendo il mio sigaro toscano?

– Semmai ti stavi vedendo un porno, dai nonno che li so tutti i tuoi segreti.

– Zitto zitto, con tutti i droni che ci sono, altro che Orwell.

– Ma se ne usi uno anche tu per spiare le vicine di casa!

– Appunto (ridendo di gusto). Ma alla mia età non possono mica mettermi in prigione.

– Hai ragione! (ride anche il nipote, citando Gianna Nannini)

– Allora, vuoi svelarmi l’arcano?

– Va bene nonno. Torniamo seri. Il problema è che non sopporto più la mamma.

– E che succede? Cosa avrà mai fatto questa volta quella santa donna.

– Mi dice che non posso fare “il dito medio”, che è volgare.

– E non ha ragione?

– Ma se a scuola lo fanno tutti, anche i professori, a volte.

– Non farmi ritirare fuori la storia del salto nel pozzo, per favore.

– Ma non centra l’imitazione o l’esser succube delle mode, come dici te. Il fatto è che ormai sono grande e posso dire le parolacce, anche con le mani se voglio.

– Di nuovo con “l’erba voglio”, che lo sai già “la un nasce neanche ’n Boboli”.

– Nonnooo ma basta con le citazioni e basta dirmi che non posso fare quello che voglio io fino a quando non mi metto a lavora’, che tanto di lavoro ce n’è poco.

– Questo è vero, però il rispetto delle regole di una casa è una cosa importante.

– E perché io non posso partecipare alla stesura di queste fantomatiche regole? E poi… magari fossero messe per iscritto. Escono così, all’improvviso, quando meno te lo aspetti. Secondo me mamma e papà se le inventano di volta in volta solo per farmi impazzire. I grandi hanno troppo potere!

– Ecco questa cosa della limitazione dei poteri potrebbe esser interessante, ma non in questo caso.

– Come no in questo caso! Se continua così, io ai 18, vivo, nemmeno ci arrivo.

– Non fare il melodrammatico. Te lo abbiamo detto centinaia di volte. Fino a una certa età conta più l’esperienza dei genitori, sono loro che possono vedere oltre e darti buoni consigli.

– Appunto, dovrebbero essere consigli e non imposizioni.

– Imposizioni, non esageriamo. D’altronde loro a scuola non ci sono. Se fai il “dito medio” in classe nessuno ti vede. Tranne io con il drone, ovviamente (grassa risata).

– Però perché dovrei comportarmi in un modo in casa e in un altro fuori casa. È un delirio.

– Ma nemmeno puoi comportarti con i tuoi genitori come se fossero i tuoi amici di cortile.

– Ma che cortile, nonno! Nel cortile ci giocavi tu!

– Va bene, va bene, ma dovresti capire il senso. La famiglia e la scuola dovrebbero essere delle “istituzioni” con delle regole da rispettare. Regole buone per farvi crescere in maniera migliore, per prepararvi a essere dei buoni cittadini. Già la scuola si è sbracata abbastanza. Ai miei tempi ci si alzava quando entrava un adulto. Preside, insegnanti, bidelli dovevano esser rispettati.

– Ma nonno, se il bidello adesso non esiste nemmeno più e si chiama “collaboratore scolastico”.

– E lo spazzino che si chiama adesso “operatore ecologico”. Senti. la distinzione tra forma e sostanza la lasciamo per un’altra volta, altrimenti si diventa scemi. Torniamo “a noi” senza braccio alzato. La questione è che in una società non può regnare l’anarchia, perché l’anarchia, come il comunismo, è una utopia. Ora non mi far tirar fuori ricordi sbiaditi su Thomas More o su Pierre Joseph Proudhon o alcuni Illuministi. Per vivere in una società senza regole dovremmo raggiungere prima un punto estremo di evoluzione. Un tal punto che in parte cancellerebbe la natura stessa dell’uomo. Senza entrare nei dettagli, per poter vivere senza regole l’uomo, il cittadino, dovrebbe esser così evoluto da rispettare il prossimo “oltre natura”. Non ci dovrebbero essere invidie, egoismi, avarizie, ingordigie ecc. Non dovrebbe esistere la moneta. Tutti dovrebbero produrre, al massimo, secondo le proprie capacità – ma senza stressarsi – e tutti dovrebbero consumare, al minimo – ma senza soffrire –, secondo bisogni fisiologici temperati attraverso l’educazione o addirittura una forma di “auto educazione”.

Questo è forse possibile?

A volte mi viene il dubbio che alcuni filosofi non avessero figli o non avessero tempo per osservarli.

Tanto per capirci… se adesso ti portassi in una pasticceria e il proprietario ti dicesse che puoi mangiare, gratis, tutti i dolci che vuoi, tu ti rimpinzeresti fino a scoppiare. Non saresti capace di pensare ad altri ipotetici ragazzini che potrebbero entrare in quella stessa pasticceria dopo di te. Saresti capace di svuotare il bancone senza lasciare niente, lucidandolo anche con la lingua.

– Dai nonno, smettila, non esagerare.

– Ma andiamo indietro nel tempo. Mi ricordo che quando tentavo di toglierti il sonaglino dalle mani, a pochi mesi di vita, urlavi come un ossesso e ti ribellavi. Ecco, in quel momento ebbi una visione: la “proprietà privata” è innata fa parte dell’istinto. Quanto tempo ci abbiamo messo per insegnarti che è giusto condividere i propri giocattoli anche con gli altri bambini. Cinque anni? Non lo ricordo nemmeno più. Però la condivisione è un valore importantissimo in una società. Senza condivisione di beni, mezzi, idee, conoscenze non si va da nessuna parte. E anche la condivisione ha bisogno di regole.

Quindi, visto il livello di educazione attuale… o meglio dire visto il livello della “buona educazione”, si può forse vivere senza regole?

Oppure, meglio vivere in una società imperfetta con delle regole di convivenza civile o vivere in una società perfetta con “auto-regole” inumane? In cui tutti sanno trattenersi e non svuotare il vassoio di pasticcini gratis?

La risposta facile non è. Queste domande te le lascio come promemoria per l’università, se esisterà ancora (ridendo). E poi l’assenza di regole esterne richiederebbe la presenza di regole “naturali” interne, che al momento non fanno parte della nostra umanità.

– Nonno mi hai fatto venire il mal di testa. Mi hai convinto, in casa non farò più il “dito medio”. Però del tuo discorso non ho capito nulla lo stesso.

– (Sì che hai capito, dai! Pensa il nonno soddisfatto) Dai chavalín, mettimi su “Le elezioni” di Gaber e fammi riprendere il mio sigaro interrotto…

– Vorrai dire “Le erezioni” nonno, non fare il furbo con me (dice ridendo il ragazzino selezionando il brano per il nonno sul loro mega impianto multimediale).

© Testo e immagine – Stefano Angelo

:: editing a cura di edida.net ::

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Se volete… completate il racconto con le due opere di canzone-teatro di Gaber citate:


Le elezioni (Giorgio Gaber – 1976)

Destra – sinistra (Giorgio Gaber – 1994)

La ragazzina che dipinge un quadro

La ragazzina

:: di Stefano Angelo ::

La ragazzina ha circa 10 anni, credo. Alta un metro e cinquanta, magra. Ha un dente che sporge leggermente in fuori. L’incisivo sinistro, per esser precisi.
Porta occhiali da vista tondi, poco spessi. Ha una felpa arancione con cappuccio, con i cordoncini bianchi, asimmetrici, che pendono sul suo torace senza seno pronunciato, per il momento. Tra poco crescerà, insieme a lei. Sorrido.
Ha dei jeans, non troppo scuri, forse leggermente strappati sulla coscia destra. Scarpe bianche, sportive. Ha delle orribili scarpe bianche sportive, con lacci vistosi e suola da astronauta. Come se la sua altezza non le bastasse. Ha dei capelli neri corvini lunghi fino al sedere, ondulati.

Viene e mi guarda, in silenzio. Viene e mi guarda in silenzio, tutte le notti. Cosa vuole da me? Perché non mi lascia dormire? Ha uno sguardo serio, forse leggermente arrabbiato.

Si mette vicino alla porta, un po’ incurvata, con l’aria di chi se ne vuol andar via, però non se ne va. Sta lì ferma, aspetta. Aspetta qualcosa ma non so cosa. Se vuole andarsene, che se ne vada e mi lasci dormire in pace!

Niente, resta lì.

Mi rigiro nel letto, sono stanco. O sono pigro. O entrambe le cose.
Immagino una bicicletta. Perché mai quella ragazzina dovrebbe avere una bicicletta? Rossa, un po’ arrugginita. Cigolante. La immagino pedalare su quel ferro non troppo vecchio, mi vien voglia di lubrificarle la catena per non sentire quel fastidioso cigolio. Ma non faccio in tempo. Apro gli occhi un po’ stordito, tiro fuori il braccio dal letto e prendo il telefono: 6:04 del mattino. Sbuffo e punto lo sguardo verso il soffitto.

Odio le bici non curate. No, che dico, mi fanno solo un po’ di tristezza. Odio il padre della ragazzina. Non so ancora perché. Però non sopporto il fatto della cattiva manutenzione della bicicletta. E se invece la ragazzina fosse senza padre? Sospiro.

Oramai son sveglio. Rassegnato mi alzo. Vado verso il bagno. Passo in silenzio al lato della ragazzina che è sempre lì, con una mano sullo stipite della porta. Mi sembra di sfiorarla con un gomito. Gonfio i polmoni cercando di catturare il suo odore. Lo comparo con quello da cinghialotto di mio figlio, che di anni ne ha nove. Sorrido. Potrebbero diventare amici, forse. Increspo le labbra e la fronte, pensieroso, mentre chiudo la porta del bagno. Un po’ di intimità, perdiana. Almeno qui. Esco come un ninja dal bagno, non voglio svegliare nessuno. Ma la ragazzina è sempre presente. Mi scruta e io scruto lei.

Rassegnato mi siedo sul letto. Ascolto, con attenzione, il respiro di mio figlio che viene dall’altra stanza. La ragazzina lo nota e mi sorride. Allora sa anche sorridere, non è sempre arrabbiata.

Mi sistemo i cuscini dietro la schiena. Sbadiglio e apro il tablet. Le mie pupille hanno un sussulto. Riguardo velocemente la lista dei documenti salvati, ma non devo divagare. Apro un nuovo file. Mi metto a scrivere. Ora sono io che ho bisogno di quella ragazzina e inchiodo rapidamente la sua descrizione su uno sfondo scuro.

La ragazzina resta lì, in quelle parole. Non se ne andrà più via, almeno da me, dalle mie pagine.

I personaggi, per uno scrittore, sono come dei bambini, dei figli. Che ti guardano ansiosi di crescere. Si aspettano sempre qualcosa da te. Non solo una storia, ma delle cure, delle attenzioni, delle confidenze. Non vogliono trasformarsi in ferri vecchi, inanimati, arrugginiti. Quanti personaggi annegati nella pigrizia… Perché?

© Testo – Stefano Angelo

© Immagine di DCStudio su Freepik, rielaborata da Stefano Angelo

:: editing a cura di edida.net ::

Lo spartito

Lo spartito

:: di Stefano Angelo ::

È facile, ce la posso fare.
Devo solo eseguire i passaggi in sequenza come mi hanno insegnato. Due pannelli, un po’ di fili da tagliare e l’allarme sarà disattivato.
È facile, ce la posso fare.

Peccato che abbia il cuore in gola e le mani sudate. Peccato che se non ci riesco Nick mi taglierà la gola, senza particolari emozioni. A lui le mani non sudano mai.

Cazzo sto pensando, basta! È facile, ce la posso fare, incominciamo.

La mia respirazione è affannosa. La gola secca. Forzo facilmente e silenziosamente la serratura del primo pannello. Tre fili rossi, li taglio in sequenza. Tutto bene. Apro il secondo pannello, un vistoso filo nero e due azzurri. Ma come!? Nessuno mi aveva detto di un filo nero. Che ci fa quel maldito filo nero in mezzo a due scatole bianche.

Cazzo faccio. Lo taglio, non lo taglio?
Non capisco più niente. Il tempo passa e non ne ho. Ok lo taglio.

No, no no no.

Scatta l’allarme. Si accendono le luci del giardino della villa. Mi giro istintivamente verso le finestre della casa di fronte. Vedo, immagino, delle tende muoversi. Mi hanno visto, cazzo mi hanno visto.

Il cuore pulsa più forte di prima, sento esplodere le vene della mia testa. Rompo con furia le due scatole bianche, sradico il contenuto senza sapere cosa sia mentre con la coda dell’occhio vedo un terzo pannello, più piccolo, in basso sulla destra. Mi avvento su di lui senza pensare, inizio a tagliare e schiacciare pulsanti come in un delirio privo di senso.

All’improvviso l’allarme si spegne e le luci del giardino pure. Una manciata di secondi, lunghi un secolo, si concludono nell’oscurità. Ma il danno è fatto. Nessuno penserà a un errore del sistema. La polizia starà già arrivando. Qui muovono eserciti all’istante per qualsiasi cagata di mosca. E la cacca di mosca, questa volta, sono io.

Era il terzo pannello! Era il maldito terzo pannello.

Non penso con lucidità. Scavalco velocemente il muretto di cinta, salto sulla bici con cui sono venuto e inizio a pedalare come un matto. Ho lasciato nel giardino la mia piccola borsa per gli attrezzi da pseudo scassinatore, ma in un primo istante non me ne frega niente, devo solo allontanarmi. Dopo un paio di chilometri, rallento, cerco di ricordare il contenuto della borsa rovesciato e abbandonato freneticamente sul suolo, non dovrebbe esserci nulla che la polizia possa utilizzare per identificarmi. Un brivido mi assale, so già che il mio capo si incazzerà lo stesso, come una bestia. Penso ora alla mia gola e al coltello da macellaio di Nick.

Intanto pedalo. Scappo via con la mia bici nera. Più nera di me. Una bici un po’ piccola per la mia statura, per la mia età, ma non mi importa. Ha un adesivo di un magnifico dragone appiccicato sul tubo obliquo. La forca con gli ammortizzatori, i freni a tamburo e tre marce, di quelle che si cambiano con la leva montata sul tubo orizzontale del telaio. Sono orgoglioso della mia bicicletta, trovata in una discarica, quasi nuova. I bianchi buttano di tutto, anche cose non usate. I bianchi sono pazzi.

Mentre pedalo sul marciapiede di un viale alberato vedo una macchina della polizia bianca, come i due energumeni che ci sono dentro, che accende le luci e parte a tutta velocità, facendo una inversione a U, verso la villa da dove vengo io. Istintivamente svolto sulla destra e pedalo lungo una strada un po’ stretta che porta verso un viale parallelo.

Il panico mi assale di nuovo. E se mi hanno visto mentre scappavo con la bicicletta? Scendo e la lascio appoggiata su un albero prima di arrivare all’incrocio con il viale. Continuo a piedi. Bestemmio e mi maledico, ma devo continuare a piedi. Credo di non avere scelta. Sull’angolo vedo ammonticchiate delle cianfrusaglie, abbandonate al lato di un cassonetto, con in cima degli spartiti e dei dépliant di vecchi saggi di scuola di musica. Li prendo senza pensare.

Intanto mi giro e vedo che qualcuno sta portando via la mia bicicletta, è una ragazza, intravedo la sagoma. Impreco di nuovo. Vorrei correrle dietro per recuperare la mia bici ma un’altra macchina della polizia sta arrivando. Trattengo il fiato e continuo a camminare lungo il viale tenendo stretti sotto il braccio gli spartiti e i dépliant.

Dopo un centinaio di metri vedo una terza macchina della polizia. Ma questa volta è un posto di blocco. Tutto questo per un tentato furto in una casa di un bianco? Non è possibile. Devo continuare, anche se vorrei girarmi e scappare via.

Cazzo un ufficiale. Si riconoscono subito quelli. Alto, in civile, col naso aquilino e i capelli lisci, leggermente lunghi, un po’ fuori norma.
Quando mi vede mi fa un cenno con la mano per dirmi di avvicinarmi. Lo faccio a testa bassa, mentre mi si gela il sangue.
Vede gli spartiti e i foglietti dei saggi musicali stretti sotto il mio braccio. Mi chiede se faccio musica nella parrocchia di don Carlo. Gli dico di sì con la testa, sempre con lo sguardo verso il basso, senza proferire parola. L’ufficiale mi dice che gli piace la musica e che gli piace quel pazzo di don Carlo. Bisogna proprio esserlo per insegnare musica a dei negri in una città comandata dai bianchi. Mi dà un rettangolino di carta. C’è scritto su il grado, il suo nome e un telefono. Mi dice di chiamarlo se mi metto nei guai. Me lo dice come se fosse una cosa “normale” mettersi nei guai. Sono un negro in una zona di bianchi. Mi dà una pacca sulla spalla e mi dice di filare a casa.

Sette giorni dopo scoprirò che, quella notte, Nick e il resto della banda avevano svaligiato un’altra casa vicino a quella dove ero io. La villa “Corazón ligero”. Che nome idiota per una casa. Ma l’idiota, in quella notte, ero stato io. Mi avevano usato come esca. Come un verme da sacrificare. Ma l’avevo scampata. Mentre loro no…

Sette giorni passati, inutilmente, nella mia stanza. L’ottavo, presi uno dei dépliant dei saggi musicali, conservati senza apparente ragione insieme agli spartiti. L’indirizzo della parrocchia di don Carlo era dall’altra parte della città, in un quartiere in cui di solito non mi avventuravo mai. Uscii di casa e iniziai a camminare, verso la parrocchia, stringendo uno spartito tra le mani.

© Testo e foto – Stefano Angelo

:: Editing a cura di edida.net ::

Chat erotiche

Un lavoro strambo

:: di Andrea Cini ::

Sono un “milleurista” e come la maggior parte dei “milleuristi” della mia generazione mi son trovato un secondo lavoro, uno di quei lavoretti che siam costretti a fare per arrotondare un po’. Uno di quei lavori che i nostri genitori non possono concepire e anche quando ci sbattono la testa continuano a non capire. Ogni giorno, grazie a Internet e le nuove tecnologie, ci reinventiamo, ed ecco che son finito a fare un lavoro decisamente strambo. Ero in vacanza alle Canarie e mentre stavo su un bus che dalla montagna mi avrebbe portato al mare, mi apparve una pubblicità su Facebook: “Sai scrivere storie? Sai intrattenere le persone? Abbiamo il lavoro per te, stiamo cercando storytellers nella tua lingua!”.

“Wow!” – esclamai – fare lo storyteller è un lavoro veramente “figo”!

Ma vuoi sapere alla fine cosa faccio? Il » Chat moderator « in situazioni, diciamo, particolari.

Ora ti spiego come funziona.

Il 99,99% dei maschietti (se non sono ipocriti) passa almeno una volta per pagine come Youporn, Pornhub, etc. e in questi siti ci si imbatte, inevitabilmente, in pubblicità del tipo: “Donne vogliose nelle tue vicinanze” o “Ragazze in calore nella tua città”. Ora, tutto questo non è altro che uno specchietto per le allodole. Un mucchio di maschioni in calore cade nella trappola convinto di trovare sesso facile, alcuni rimangono, altri no. Ma le allodole, di solito, son tante. A volte, sono anche donne.

Una truffa? Fino a un certo punto… Oggigiorno c’è sempre un’avvertenza per tutto e anche nei siti web con cui collaboro, al momento dell’iscrizione, è specificato ben chiaro che hanno come scopo far divertire e tenere compagnia alle persone mediante vari argomenti di conversazione, ma che no, non esiste la possibilità di incontri reali. Il problema è che nessuno legge questo tipo di indicazioni e dopo che le allodole si accorgono che le chat non portano a niente, si incupiscono. Alcuni, addirittura, fanno le vittime e scrivono a qualche programma TV (che non si occupa di ornitologia) per gridare allo scandalo.

Molte volte provo pura pena, perché ci sono dei soggetti che davvero credono di poter trovare l’amore in questi luoghi virtuali, persone sole, spesso lontane, non solo fisicamente, da parenti e amici. Certo, ci sono anche individui che vivono in case sperdute in campagna, con pochissimi contatti umani, completamente disconnessi dalla realtà. A volte vorrei poter andare da loro per fargli compagnia, per dargli un po’ di calore umano, quello vero intendo (ma ahimè non vivo nel loro stesso paese e l’anonimato è la prima regola di questo strambo lavoro).

Ma entriamo nel vivo della mia occupazione: tutto si basa sul chattare e sullo scambio di foto. Facile, non credi? Il mio profilo come ragazza, normalmente, consiste in una foto di una modella o pornostar, mentre le informazioni (nome, lavoro, città etc.) se non sono già state inserite da qualche altro operatore, me le devo inventare, basandomi sulle caratteristiche di base del profilo impostate dal sistema (regione di provenienza, status sociale, età, etc.). Il cliente naturalmente può mandarmi millemila foto, io ho solo quelle basiche del profilo, più quelle che mi vengono messe a disposizione come “bonus” (che normalmente sono tre o quattro e sono veramente poche).

I clienti si sbizzarriscono raccontando le loro fantasie sessuali, quindi si tratta al 80% di sexting, assecondando i loro desideri nascosti.

Il modus operandi inizia sempre con un messaggio ammiccante (mandato in automatico dal sistema) al potenziale cliente, al quale si fa capire che la ragazza è vogliosa, in modo da attirare la sua attenzione; oppure l’utente già registrato, guardando le foto delle ragazze, a seconda della categoria che sta cercando (età, status sociale, regione di provenienza, gusti sessuali etc.), si fa avanti, sperando che i suoi desideri vengano esauditi. Sai com’è, quando la conversazione non è presenziale molti si fanno prendere la mano e quindi tutto quello che non avrebbero mai il coraggio di dire in faccia a una ragazza, lo dicono in chat perché quando si è nascosti dallo schermo si perde ogni inibizione.

Normalmente cerco di mantenere un personaggio verosimile, per non far sembrare tutto una finzione mentre altri operatori scrivono solo messaggi dolci e smielati (molti scrivono sempre le stesse cose, creando malcontento tra gli altri operatori, in quanto diventa poi più complicato rendere la situazione plausibile). Io mi prendo molta cura del mio personaggio, creando/ideando profili di diverso tipo.

Uno dei miei preferiti è la “nazi-femminista” della serie “io non sono una puttana e non sono a disposizione quando tu lo desideri, se vuoi questo ci sono i nightclub o le ragazze per strada”, rammento loro che “è facile dire queste cose quando sei in chat, vorrei vederti dal vivo”.

Mi diverto ad andare contro le loro volontà quando vogliono fare il “macho dominante” e pensano che io possa cadere ai loro piedi e quindi scatto dicendo che a me durante il sesso piace comandare e che l’uomo è il mio schiavo, a volte dico loro che voglio incu…li con il dildo, altre che voglio metterli al guinzaglio e portarli a spasso in giro per la casa.

Quando vedo che il cliente sta perdendo la pazienza e vuole “lasciare” la pagina, quindi anche la “ragazza”, mi trasformo in pazza isterica, accusandolo di essere egoista, di voler lasciare la chat solo perché cercava la sco..ta facile, oppure di non essere in grado di “capire i miei sentimenti” che sono “veri e puri”, e lì iniziano discussioni infinite, come don Chisciotte con i mulini a vento. Da una parte la ragazza che fa la vittima, dall’altra, il povero cristo che cerca di spiegare le sue ragioni (e ha tutte le motivazioni del mondo, soprattutto economiche). Normalmente questo tipo di discussioni finiscono con una pace o un addio.

Bisogna precisare che non ho un “cliente fisso” con il quale parlo. Ogni volta che mi connetto alle due pagine di chat, un algoritmo mi assegna una “chiacchierata random”, stile chatroulette, quindi in alcuni casi devo iniziarne una da zero (cliente nuovo, o semplicemente il cliente non ha mai conversato con questa ragazza), o devo riattivare una conversazione con un cliente abituale che si è appena connesso, oppure prenderne in mano una che stavano facendo uno o più operatori (ovvero, se il cliente rimane online per tipo due ore a conversare con la “stessa ragazza”, può parlare con più di un operatore durante la medesima chiacchierata a seconda di chi è connesso in quel momento, senza rendersene conto). Ovviamente il sistema tende ad affibbiarti una stessa chat il più tempo possibile finché sei connesso.

Tutte le informazioni sul cliente e sulla ragazza sono salvate in delle note, man mano che continua la conversazione, da noi agenti per evitare contraddizioni, (se fa l’infermiera, non può domani fare la commessa). Questo è importante anche durante le conversazioni quotidiane: sapere attraverso le note se il cliente sta vivendo un periodo particolare, o se è una persona dai gusti speciali, aiuta l’operatore a riprendere il filo, perché non sempre mi ricapita un cliente che abbia conversato con me durante la sua ultima connessione. Non posso partire da zero, altrimenti il cliente potrebbe capire che qualcosa non va.

Ma non avere paura, lo so che stavi pensando a questo, quando la chat viene abbandonata dal cliente, tutte le note e soprattutto tutte le sue foto vengono cancellate dal sistema.

Durante la mia esperienza, ho imparato a suddividere i clienti in vari tipi.

  • IL FURBO: Colui che fin da subito ti lascia i suoi contatti personali (mail e telefono, o FB e IG) convinto che la ragazza lo contatti lì per non pagare l’abbonamento alla pagina web;
  • IL TROMBAIOLO: Colui che parla solo ed esclusivamente di sesso e che mette in chiaro fin da subito che cerca solo avventure sessuali e non vuole nessun tipo di relazione;
  • LO SPOSATO: Una sottospecie di trombaiolo, colui che mette in chiaro fin da subito che è sposato, ma cerca sesso facile su internet perché la moglie non glie la dà più, o perché “a detta sua” la dà troppo poco per le sue focose voglie;
  • L’ANONIMO (SPOSATO): Cerca sesso facile su internet, non ha intenzione di mettere una sua foto perché ha paura di venire riconosciuto da qualcuno (il 90% delle volte perché è sposato) e vuole incontrarsi con la ragazza al più presto possibile (mentre la ragazza gli dice che non si sente sicura e magari riesce a tenerlo in ballo per mesi e mesi, senza “happy end”);
  • IL VEDOVO: Dopo la dipartita della consorte, cerca in tutti i modi di riempire il vuoto mancante;
  • L’INNAMORATO: Il più difficile da gestire, perché è quello che si innamora della “ragazza virtuale” e a volte provi davvero pena per lui, convintissimo di avere una fidanzata online che prima o poi lo incontrerà di persona, mentre l’operatore lo riempie di parole, di amore e di attenzioni, ma solo online (ci sono “innamorati” che durano anche 2/3 anni);
  • IL SADOMASO: Quello che cerca una dominatrice, una donna che soddisfi ogni sua fantasia del genere, con frustini, dildo in c..o, completini in latex, bondage, etc. etc. (sono arrivati anche a chiedermi di urinare e defecare sul loro corpo);
  • IL FINTO FEDELE: Promette amore eterno a ogni ragazza con cui si scrive (convinto che lei non sappia delle altre) e ogni volta che “lei” chiede se è l’unica con cui è in contatto dice sempre “Tu sei l’unica, sei il mio unico amore, non parlo con nessun’altra su questa pagina”;
  • IL FRETTOLOSO: Va sempre di fretta, non ha “tempo da perdere” con i messaggi, dobbiamo scopare, dimmi solo “dove e quando”. Sono i miei preferiti perché sono anche i più maleducati e allora godo nel torturarli;
  • L’IMPERTERRITO: Quello che va avanti mesi scrivendo ogni giorno a una ragazza nuova, sperando di trovare una disposta a incontrarlo e, di conseguenza, dargliela;
  • L’UOMO ULTIMATUM: Quello che minaccia sempre di lasciare la pagina, ti lascia i suoi contatti sperando di ricevere una chiamata o una mail, dice sempre che questo messaggio è l’ultimo;
  • L’UOMO ULTIMATUM 2: Quello che non si fa vivo per un po’ di tempo e poi all’improvviso scrive “Sono dalle tue parti, zona XY, se davvero fai sul serio chiamami al 123456” oppure, “ci troviamo tra un’ora al posto X”;
  • A VOLTE RITORNANO: Quello che si rifà vivo dopo mesi, a volte con lo stesso profilo (quindi è facile vedere la data dell’ultimo messaggio inviato), a volte con uno nuovo (in questo caso è più difficile riconoscerlo, ma sarà lui il primo a dirti “Hey sono Johnny, ti ricordi di me?” Certo come no…);
  • LO STALLONE: Colui che al primo messaggio già ti chiede “dove e quando” per venire a darti “una sistemata”, esalta le potenzialità del suo attrezzo e promette faville a letto;
  • L’EGOCENTRICO: Ti manda la foto del suo c…o e poi ti chiede cosa ne pensi;
  • IL CANE BASTONATO: Scrive frasi negative convinto di farti pena, della serie: “So che ci sono altri uomini oltre a me, e che io non conto niente”, oppure “Divertiti pure, mentre io sarò qua solo a guardare la tele”. Insomma, un piagnisteo continuo;
  • IL PURITANO: Quello che parla con le ragazze, ma allo stesso tempo le ripudia, per essere già state con altri uomini (casi più unici che rari, ma esistono davvero);
  • IL VERGINELLO: Può essere un ragazzino di 18 anni, come un adulto di 40. Si dichiara vergine ed è convinto di trovare finalmente qualcuna con cui perdere appunto la cosiddetta verginità;
  • IL TEENAGER: Secondo me rubano la carta di credito al padre o alla madre, normalmente cercano donne più mature, con le quali fare “esperienza”;
  • IL THREESOMER: Cerca una ragazza con la quale montare un trio, insieme alla “sua ragazza” che poi (nella maggior parte dei casi) altri non è che un’altra ragazza della pagina, che lui è convinto essere la sua fidanzata;
  • LA COPPIA APERTA: Una vera coppia in cerca di una ragazza con cui fare giochi a tre;
  • IL RINUNCIATARIO: Ormai ha rinunciato ai sogni di gloria, a ogni messaggio iniziale della ragazza risponde con un “Io farei volentieri molte cose con te, ma purtroppo su questa pagina siete tutte disposte a parlare, ma quando si tratta di passare ai fatti vi tirate indietro”. Non ho mai capito cosa cercano di dimostrare, i rinunciatari, con questo tipo di messaggi, forse è un volerci provare per l’ultima volta o giusto utilizzare gli ultimi crediti.
  • LA LESBICA: A volte entrano anche lesbiche in cerca di ragazze, ma sono una minoranza.

Da uomo trasformato in “virtual girl” mi diverto molto. Diciamo che, da single, mi ritrovo in molti di loro, capisco le passioni e il loro desiderio di voler trovare l’anima gemella, solo che, probabilmente, eviterei di spendere metà del mio stipendio mensile per parlare con una persona che rimanda sempre i nostri incontri, perché “non si sente sicura”. Non so se sia un gioco o se assisto a delle miserie umane. Come interpreto io un personaggio, anche i clienti possono interpretare. Giudicare non mi interessa. In fondo, è solo un lavoro strambo.

© Testo – Andrea Cini

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